L’adolescente con malattia

grave, mortale.

Il problema della morte

 

Gabrielle Bernini*

* Dipartimento di Pediatria - Università di Firenze.


Il comportamento dell’individuo di fronte alla malattia grave e di fronte alla morte varia a seconda dell’età. Il bambino piccolo per esempio reagisce alla malattia con un atteggiamento di tipo regressivo, riannodando cioè quei fili che lo tenevano dipendente dalla madre; l’adolescente invece vive la "sua sventura" in maniera tutta particolare. Per comprendere meglio questo suo comportamento bisogna tracciare un profilo, anche sommario, dell’adolescenza.

"Adolescenza" é quel periodo della vita in cui il ragazzo avverte in modo intenso il senso della vita interiore, per cui, ascoltandola introspettivamente, deve fare i conti con il mondo del passato (cioè con le fantasie pre-edipiche che riemergono), con il mondo attuale e con il futuro quanto mai incerto e problematico.

La percezione più importante che deriva da questi conflitti é che il mondo adulto, una volta così idealizzato, in realtà non é onnipotente e gli adulti salvo qualche rara eccezione sono solo detentori di potere.

Bisogna quindi ricercare un mondo nuovo e migliore, allontanandosi dagli antichi oggetti di amore.

L’adolescenza vista nel suo insieme, può essere definita la messa in crisi di ogni certezza. La realtà di rivela deludente e il bisogno di autoaffermazione diventa essenziale.

Il rapporto più gratificate non é più con i genitori ma con i coetanei o comunque con qualcuno al di fuori del nucleo familiare. Può essere anche con un adulto ma sempre estraneo alla famiglia e con prerogative tali da assumere agli occhi dell’adolescente il ruolo di capo. In ogni modo il mondo adulto é guardato sempre con sospetto e con evidente ostilità e questo porta alla critica e alla disubbidienza.

Nel mondo adolescente assumono sempre maggiore importanza la destrezza nei confronti degli altri coetanei, la bravura a scuola, i successi sportivi, la bellezza, il bisogno di guadagnare un prestigio che in definitiva consente di emergere dal gruppo e in special modo nei riguardi dell’altro sesso.

La malattia grave, qualunque essa sia, sconvolge tutti questi progetti di affermazione in primo luogo minando l’integrità fisica ed implicando un ritorno a dipendenze strette con l’adulto e questo comporta un senso di punizione e un annullamento del desiderio di emancipazione.

Naturalmente ogni reazione emozionale nei confronti della malattia e anche dell’ospedale é strettamente dipendente dal rapporto che l’adolescente ha con i genitori e con il nucleo familiare in genere.

Ci possono essere così due diversi modi di comportamento: se si é all’inizio della adolescenza ci potrà essere un abbandono più o meno totale di ogni tentativo di autonomia e il ragazzo ritornerà "bambino" instaurando di nuovo quei rapporti di dipendenza parentale che aveva abbandonato; altrimenti si sentirà offeso, tradito e tenterà di colpevolizzare l’adulto rifiutando tutto quanto dal mondo adulto proviene con il solo risultato di chiudersi in un ostinato e tragico isolamento.

Qualsiasi rapporto con gli altri é caratterizzato da improvvisi cambiamenti di umore, può essere aggressivo e disperato, strafottente e timido, rifiutare qualsiasi forma di conforto oppure lasciarsi andare a lunghi pianti silenziosi. L’angoscia del ragazzo é più profonda e grave di quella del bambino: egli vive senza poterla comunicare la paura della malattia, la paura della morte.

Uno dei drammi più sconvolgenti cui si trova preso di fronte, é costituito dal fatto che la malattia e le cure che questa comporta ledono la sua integrità fisica, la sua bellezza; spesso perde i capelli, talvolta quel corpo cui tiene tanto viene deturpato da cicatrici, il dimagrimento e la spossatezza fiaccano ogni sua voglia di fare.

Ogni tentativo di relazione sociale viene in questa maniera abolito e la malattia é vissuta con rabbia e disperazione. Il terremoto psicologico che con essa si instaura porta ad una metamorfosi. Ecco che il ragazzo diventa sprezzante del pericolo, ostile, nemico di tutto e di tutti, non chiede mai conforto. L’adolescente con malattia grave, con malattia mortale non vuole essere né amato né compatito, vuole solo essere sano !

Quasi sempre i genitori vivono la malattia del loro figlio come un disperato bisogno di dare amore che si traduce spesso in una iperprotezione esasperata con il solo risultato di peggiorare ancora di più le cose.

Una forma di iperprotezione p.es., può essere quella di nascondere al ragazzo, il tipo, la gravità, l’evoluzione fatale della malattia, in questo aiutati spesso dal medico. Questo comportamento lungi dal rassicurarlo rende l’adolescente ancor più insicuro aumentando il suo terrore e confermandogli quanto la sua malattia sia grave.

In questa maniera vengono a mancare tutti i presupposti per affrontare il problema in un colloquio aperto e il ragazzo finisce per chiudersi in una prigione nella quale la sua ansia, la sua paura non possono più esplodere.

Il rapporto più valido si instaura spesso nel nuovo ambiente in cui é costretto a vivere questa nuova esperienza di vita cioé l’ospedale. Allora, il medico, il personale, gli stessi coetanei malati possono assumere un ruolo importante, determinante nel riacquistare nuova fiducia quanto basta per uscire dall’isolamento esorcizzando la propria angoscia.

Ma questo nuovo "benessere" é destinato a non durate a lungo. Spesso durante il trattamento il coetaneo, compagno di malattia viene a mancare. Il ragazzo può chiedere all’inizio dov’é l’amico, dov’é il compagno di sventura. Quando ne intuisce la fine é come se questi non fosse mai esistito, non ne parla più, non chiede mai niente, non vuol sapere.

Talvolta dopo un miglioramento iniziale, che ha dato l’illusione della vittoria, la malattia precipita, la morte é vicina. Il vivere diventa allora drammatico, l’isolamento si fa totale. La figura del nuovo capo, quella al capo é stata data nuova fiducia, in genere il medico che lo ha preso in cura, si incrina, vacilla, lo delude; l’angoscia del futuro e la paura della morte si fanno insopportabili.

Il rapporto con i genitori può essere definitivamente perso e ogni conforto che viene dal mondo dei sani é rifiutato.

Il problema della morte viene vissuto in maniera diversa a seconda di come questa é stata raffigurata in precedenza dai genitori; se essa é stata rappresentata come un evento naturale, l’adolescente potrà sopportare di morire, altrimenti la morte sarà inaccettabile.

Perché tocca proprio a me di morire ? Perché devo morire ? Che colpa ne ho io di morire ? Queste sono le domande che più con lo sguardo che con le parole, silenziosamente, l’adolescente rivolge a chi gli sta vicino.

E’ certo, che parlare di morte ad un ragazzo che intuisce di dover morire é difficile. Il farla comprendere, il farla accettare dipende anche dal grado di sensibilità, l’intelligenza, amore e preparazione culturale di quanti lo circondano.

Importante é cercare di far comprendere che la morte fa parte dell’ordine naturale delle cose, che ha un suo significato sociale; che essa non significa solo separazione per chi muore dagli atri e che la perdita non é mai completata.

E’ importante che si sappia in ogni momento che nella morte non si é mai soli e che anche se la vita si interrompe prima, questa é stata completa in ogni senso. La morte non significa solo oblio, significa anche lasciare un qualcosa dietro di sé, nella scuola, negli amici, in quanti ci circondano.

La morte infine non può e non deve essere presa come una sconfitta ma soprattutto come la liberazione di ogni dolore.

Relazione introduttiva alla sessione Congiunta Personale Medico ed infermieristico promossa e sostenuta dalla Fondazione Livia Benini in occasione del XVII Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana di Ematologia ed Oncologia Pediatrica. Firenze 26,27,28 Aprile 1990.


Il Dolore in Oncoematologia

Pediatrica

Professor Carlo Guazzelli

Dipartimento di Pediatria, Ematologia

Università degli Studi

Ospedale Anna Meyer - Firenze


Nell’accingersi a parlare del dolore nel bambino oncoematologico, può forse essere utile ricordare quanto ha scritto il filosofo R.Guardini, parlando dell’angoscia: "E’ troppo importante perché la si possa lasciare solo ai medici".

La parola dolore evoca infatti una realtà complessa già dalla prima valutazione diagnostica, che nella conoscenza più approfondita delle componenti fisiopatologiche, psicologiche metafisiche ed etiche che sottendono il fenomeno "dolore" nel bambino e nell’adolescente e ci richiama al rischio di una lettura semplificata e riduttiva del problema.

L’interesse per la conoscenza del dolore nel bambino e nell’adolescente risale all’ultimo decennio. In precedenza, mentre per l’adulto erano state condotte ricerche sempre più approfondite 1, per il bambino erano ancora in vigore i miti 2 secondo i quali la sensibilità infantile al dolore sarebbe minore di quella dell’adulto ed il bambino non sarebbe capace di memorizzare tali percezioni né di organizzare adeguate reazioni di difesa contro di esse.

Inoltre le reazioni al dolore che sono fenomeni obiettivamente osservabili a livello del comportamento, non sono facilmente distinguibili da altre espressioni emozionali mostrate dal bambino in condizioni di stress (paura, collera, angoscia, ecc.).

Gli studi neuroanatomici, neurochimici ed elettrofisiologici condotti da vari AA 4,5 hanno fornito le prove di certe della capacità del sistema nervoso del feto e del neonato di trasmettere stimoli dolorosi e di reagire ad essi e confermato la correlazione diretta fra età del bambino e soglia al dolore.

Inoltre hanno affermato la significativa influenza dei fattori personali (età, sesso, caratteristiche psicologiche) sulla esperienza del dolore 3. In recenti studi 5,6,7 un ampio campione di bambini (994 bambini di 5-12 anni; 680 bambini di 5-14 anni) sono stati intervistati tramite interviste semistrutturate e questionari 2 somministrati con le dovute attenzioni.

I soggetti non solo descrivono in maniera appropriata le diverse sensazioni dolorose, ma sono in grado di darne una valutazione comparativa quantitativa e qualitativa tematica che, nei più grandi giunge alla discriminazione fra componenti fisiche e psichiche ed alla consapevolezza della imprendicibilità della durata del dolore e delle conseguenze psicosociali.

Anche sotto il profilo della causalità la concezione infantile del dolore acquista progressivamente complessità, come sarà meglio di me illustrato dai relatori che partecipano alla tavola rotonda.

Meno consapevoli o disponibili ad intervenire sembrano i medici, che risultano restii a prescrivere analgesici e psicofarmaci ai pazienti di età pediatrica, mentre li prescrivono abitualmente agli adulti nelle stesse situazioni cliniche (operati, ustionati, ecc.).

Secondo alcuni AA. fra i più qualificati nello studio e nel trattamento del dolore 8,9 l’impegno dei medici nel diagnosticare e nel curare il dolore, specialmente il dolore oncologico, é probabilmente insufficiente rispetto alla rilevanza e complessità del problema.

Secondo Ventafridda e Coll. 8,9 le cause di questa situazione sono molte 9:

• scarsità di pubblicazioni: Bonifica riferisce che in 11 libri fondamentali sul cancro consultati, soltanto 21 pagine su 9000 in totale sono dedicate alla terapia del dolore; scrive inoltre che negli ultimi trent’anni neppure uno studio é stato pubblicato sui meccanismi del dolore da cancro, confermando così che, se molto si sta indagando sulla fisiopatologia del dolore nei suoi aspetti generali, ben poco si studia sulle caratteristiche del dolore cronico nelle malattie oncologiche;

• scarsità di fondi: per esempio negli Stati Uniti ogni anno viene stanziato oltre un miliardo di dollari per la ricerca di nuovi farmaci contro i tumori, ma solo lo 0,04% di questa somma é destinata allo studio del dolore;

• scarsità di interesse: sono solo pochi gli scienziati che si dedicano allo studio dei meccanismi del dolore oncologico in tutti gli Stati Uniti, ed é di comune evidenza che i protocolli terapeutici, risultati clinici e programmi di formazione didattica nella lotta contro i tumori, ignorano e sfuggono la parola dolore;

• mancanza di una educazione: a livello universitario e specialistico sono rari i corsi di formazione e molto scarsi gli accenni ai meccanismi e ai tipi di dolore tumorale, alle risposte emozionali e comportamentali del dolore e della sofferenza dei malati oncologici;

• scarsa conoscenza farmacologica; la farmacologia clinica applicata al campo analgesico, in particolare al dolore cronico, ha compiuto limitati progressi negli ultimi anni, il personale medico e paramedico continua a nutrire immotivate paure e falsi preconcetti di tossicodipendenza circa l’uso di farmaci oppiacei nel trattamento del dolore oncologico;

• scarsità di farmaci oppiacei a disposizione, difficoltà di ricettazione e di reperimento in molte regioni d’Italia 10.

 

Tutto questo, presentato ovviamente in maniera estremamente sintetica ed incompleta (per gli addetti ai lavori alcune notazioni sono poco più che un "flash"), sarà oggetto delle reazioni che saranno svolte in maniera più completa e dettagliata dai vari relatori, che sono rappresentati dai migliori esperti in campo nazionale ed internazionale.

 

BIBLIOGRAFIA

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