Il dolore del bambino: si può e si deve combattere

GIORNATA DI AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE 27 MAGGIO 2000

A cura di A. Pozella, I. Pierucci e G. Di Vita

Presidio Ospedaliero dell’"Immacolata" di Sapri (SA) – A.S.L. SA/3

 


 

Indice

Prefazione – V.D’Agostino

Introduzione – I. Pierucci – G. DI Vita

Relazioni


 

Prefazione

Parlare del dolore è difficile: parlare del dolore dei bambini ci mette a disagio, perché non riusciamo ad accettare che esso contamini anche l’infanzia. Quando vediamo un bambino che soffre ci sentiamo smarriti, ci sentiamo invasi da un profondo senso di ingiustizia. Anche chi, come me, che per professione medica che svolge, è continuamente a contatto con la sofferenza, sente un impulso spontaneo a proteggersi dal dolore dei bambini. Oggi, invece, vogliamo parlare proprio di questo dolore, in quanto la diffusione delle Linee Guida dell’OMS è un’occasione importante per richiamare l’attenzione di tutti affinché maturi una nuova consapevolezza su questo argomento e, soprattutto, sulle tecniche che consentono, in molti casi, di alleviare la sofferenza dei bambini ed a volte di eliminarla del tutto.

L’incontro odierno si colloca in un’ottica nazionale di grande importanza sia culturale che umana e sociale e risponde ad un’esigenza profondamente sentita e vissuta nelle nostre zone: promuovere un’assistenza "a misura dei bambini", affinché questi possano crescere più sereni e meno traumatizzati, pur se colpiti dall’esperienza del dolore.

Ognuno di noi può trovarsi, spesso senza preavviso, davanti al dolore; ciò è già successo a molti per la malattia di un figlio, di un amico, di una persona cara; per questo la lotta al dolore, soprattutto in età pediatrica, è una sfida che deve vedere uniti tutti.

Le terapie e le tecniche in questi ultimi anni hanno fatto dei notevoli progressi, per cui disponiamo di sistemi validissimi e consolidati per combattere il dolore: per questo possiamo dire che non si può e non si deve restare inermi dinanzi ad un bambino che soffre.

Le relazioni che seguono affrontano tali problematiche da vari punti di vista: da quello medico a quello infermieristico, da quello pedagogico a quello psicologico, da quello giuridico a quello spirituale, da quello clinico a quello farmacologico.

È bello e giusto pensare ad un futuro felice per i nostri bambini, ma se il dolore dovesse arrivare, non deve trovarci più impreparati.

Mi corre l’obbligo di salutare gli illustri Relatori e Convegnisti tutti, provenienti da ogni parte dolore’Italia, ospiti del nostro meraviglioso Golfo di Policastro; a nome mio personale e degli Enti che rappresento auguro a tutti buon lavoro.

Vito D’Agostino

Sindaco Comune di Sapri

Presidente Comunità Montana del Bussento


Introduzione

Il trattamento del dolore è uno dei principali doveri del medico.

L’adempimento di questo dovere è stato storicamente scarso specie nei confronti del paziente pediatrico. Fino a pochi anni orsono prevaleva il concetto che i bambini non percepissero o non ricordassero gli eventi dolorosi con la stessa intensità di un adulto. Si temeva anche in modo infondato che il trattamento del dolore mascherasse sintomi di lesioni ingravescenti. Tutto ciò è falso a non è più appropriato limitarsi a negare l’analgesia. Sono state date numerose ed erronee motivazioni per non trattare il dolore in pediatria. L’affermazione più frequente era che i bambini specie se lattanti non provassero dolore. Di fatto le vie neurali nocicettive sono attive entro la 23a e 24a settimana di E.G.

I neonati a termine e pretermine presentano un completo sviluppo delle vie di trasmissione del dolore senza presentare un completo sviluppo dei sistemi di inibizione del dolore. Pertanto è dimostrato che provino dolore in misura maggiore rispetto ai soggetti di età inferiore. Inoltre, molti medici rifiutano la somministrazione di analgesici o li somministrano in modo inadeguato per il timore di gravi effetti collaterali possibili, quali la depressione respiratoria o l’ipotensione, ma l’uso appropriato di qualsiasi farmaco analgesico riduce fortemente i rischi suddetti. Un’altre falsa affermazione è che i bambini presentano un maggiore rischio di assuefazione o di mascheramento dei sintomi di peggioramento. Non esiste alcuna ragione per negare una adeguata analgesia ad un bambino. I miti e i dogmi del passato relativi al trattamento del dolore in pediatria sono superati e non esiste più alcuna valida ragione per negare analgesici. I bambini sofferenti sono confusi, spaventati e stremati: è nostro dovere mitigare la sofferenza. Vorremmo concludere riportando dei versi tratti dal libro "Dalle parole non dette" di Kahlil Gibran:

…puoi dimenticare le persone con cui hai riso

mai quelle con cui hai pianto.

Dott. Ippolito Pierucci

Primario Divisione Pediatria

Ospedale dell’"Immacolata" di Sapri

Dott Giuseppe Di Vita

Primario del Servizio di Anestesia e Rianimazione

Ospedale dell’"Immacolata" di Sapri


RELAZIONI

 

Miti e pregiudizi sul dolore dei bambini

A.Pozella

Servizio Farmacia – Ospedale dell’"Immacolata" di Sapri

 

Il dolore, pur rappresentando il più temuto sintomo di malattia, l’esperienza più traumatizzante vissuta dal bambino, è stato, per anni, sottovalutato, sottostimato e di conseguenza "mal trattato"; in letteratura è stato argomento poco considerato se non addirittura ignorato, a differenza di quanto avveniva nell’adulto e solo recentemente il trattamento antalgico in pediatria è diventato parte integrante dell’assistenza del piccolo malato. Basti pensare che nel 1976 Lippman e coll. Affermavano che non è necessaria alcuna analgesia o anestesia per la legatura del dotto di Botallo nel prematuro. Circoncisioni e toracostomie erano spesso eseguite nei neonati senza anestesi locale. Oltre che nell’assistenza per-operatoria, analoghe discrepanze sono state riscontrate in altre situazioni cliniche.

Quando sono stati interrogati i membri dell’équipe di alcuni Centri Ustionati (Weisman e Schechter 1991), il 20% ha suggerito che non era necessario l’uso di analgesici per la toilette delle ustioni nei pazienti pediatrici.

L’inutile dolore delle pratiche diagnostiche-terapeutiche, aggiunto a quello della patologia, aumenta il peso della malattia a carico del paziente pediatrico e della famiglia. Quando questo peso è diminuito da un adeguato trattamento antalgico risulta maggiore la probabilità di compliance al regime terapeutico (Ivani 1996).

La mancanza di disponibilità di informazioni in quest’area ha permesso di perpetuare numerose concezioni erronee sul dolore ed il suo trattamento nei bambini, prive di qualsiasi fondamento scientifico. Alcuni autori hanno definito queste ultime "Miti o Favole della Medicina". Mi fermerò ora, solo su alcune di esse, presentando la loro confutazione, poiché i successivi interventi faranno luce sulle altre.

§ I bambini piccoli, i neonati in particolare, non provano dolore. (FALSO)

Per molti anni la comunità scientifica ha considerato il neonato ed a maggior ragione il prematuro, incapace di provare dolore (Nespoli 1996). Questa convinzione si basava sul presupposto che i neonati fossero dotati di una soglia del dolore più elevata e fossero incapaci sia di trasmettere sensazioni somatiche dolorose dalla periferia al sistema nervoso centrale, sia di memorizzarle ed integrarle a livello corticale (Eland 1987).

Negli ultimi 17 anni numerosi studi sperimentali e clinici (Moretti e Otaviano 1998) hanno dimostrato l’esistenza della percezione del neonato già dalla 26a settimana di gestazione. Questi studi hanno precisato le caratteristiche della nocicezione in funzione dell’età gestazionale. Le terminazioni libere destinate a svolgere il ruolo di nocicettori appaiono nelle regione peribuccale nel corso della 7a settimana della vita endouterina. Si diffondono in seguito rapidamente all’intera faccia (9 settimane), al tronco e alla radice degli arti (15 settimane) e finalmente all’insieme dei tegumenti prima del termine della 20a settimana (Dalens 1995).

La differenziazione delle vie afferenti è raggiunta, ad eccezione della loro mielinizzazione, prima della fine del periodo embrionario.

La mancanza della mielinizzazione è stata proposta come un indice di immaturità del sistema nervoso del neonato ed è un argomento spesso usato per sostenere che i neonati a termine e i prematuri non sono capaci di percezione dolorosa. L’incompleta mielinizazione implica, solamente, una più lenta velocità di conduzione dei nervi periferici o nei tratti nervosi centrali del neonato, è, comunque, completamente compensata dalla più breve distanza (Anand e Hickey 1987).

In ogni caso, all’inizio della 29a settimana di vita endo-uterina, le vie spinali lunghe sono completamente differenziate e mielinizzate (Dalens 1995).

L’insieme di questi dati anatomici, più gli ultimi studi biologici ed elettrofisiologici, suggerisce fortemente l’esistenza di funzioni coricali precoci.

Così, già nel prematuro, la maturità anatomica e neurochimica è sufficiente perché gli stimoli nocicettivi siano normalmente trasmessi (Anand e Hickey 1987); ma ciò non si realizza per il meccanismo protettivo dell’antinocicezione. Il neonato umano non dispone affatto dei mezzi completi di difesa contro il dolore che non saranno totalmente efficaci che nel secondo trimestre di vita. Ma se non vi sono neurotrasmettitori antinocicettivi alla nascita, esistono per contro dei recettori oppioidi maturi (Dalens 1995). In conclusione, il prematuro, proprio in virtù della sua immaturità, ha, dunque, una soglia del dolore più bassa e una percezione più intensa, diffusa e duratura dello stimolo doloroso (Moretti e Ottaviano 1998).

§ Il dolore non uccide e non ha effetti di lunga durata nei lattanti e nei bambini piccoli, i quali, in ogni modo, non se ne ricordano. (FALSO)

Il dolore può avere conseguenze negative ed anche mortali nel neonato. Alcuni autori (McCaffery e Beebe 1993) sostengono che il dolore, nei neonati, possa essere talvolta rischioso per la vita stessa, specialmente se il bambino risponde con il pianto e con conseguente diminuita ossigenazione a cui può seguire un’emorragia intraventricolare che è una delle più importanti cause di morte dei prematuri.

La valutazione degli effetti a lungo termine delle esperienze dolorose del bambino è difficile, ma importantissima e non solo a livello fisico. Non mi soffermo su questo punto perché ne parlerà chiaramente il prof. Capoleoni nella Sua relazione tra breve e la prof.ssa Carbonara nel pomeriggio.

Per quanto riguarda la memorizzazione del dolore, uno studio sulle risposte comportamentali di bambini durante un programma di vaccinazione, dimostra che già verso i 9 mesi dolore’età alcuni bambini piangono prima della vaccinazione se ne hanno avuto un’altra 6 settimane prima (McCaffery e Beebe 1993). È dunque il dolore che è qui in causa: il cambiamento del comportamento del neonato non può più essere legittimamente considerato come di natura semplicemente riflessa o sottocorticale. Al contrario, esso implica una memorizzazione, cioè a dire una partecipazione corticale con integrazione. Il dolore in sé e per sé non è ricordato, neanche negli adulti, si ricordano soltanto le esperienze che al dolore erano associate. Le circostanze del dolore, le sue cause, la sua localizzazione, il suo contesto emozionale sono memorizzati. A volte è l’apprensione che resta nel ricordo e non il dolore veramente sentito. Impossibile ricordarsi con precisione un fortissimo mal di denti. Il dolore è estraneo al pensiero. Tuttavia, se riappare, esso è riconosciuto e identificato: non è stato dimenticato (Gauvain-Piquard e Meignier 1993), anzi, sembra che il dolore, e la paura che suscita, si accumulino nel tempo (Kuttner 1999).

§ Il dolore non può essere riconosciuto e valutato nei bambini piccoli perché non in grado di comunicare bene verbalmente. (FALSO)

oggi, anche se con difficoltà, il dolore si può riconoscere e valutare tramite molte scale comportamentali nei bambini che non siano in grado di comunicare verbalmente la loro sofferenza. Queste scale sono basate sulla valutazione di risposte fisiologiche (per esempio, la frequenza cardiaca, livello di ossigeno) o di comportamenti (per esempio, pianto, espressione facciale, atteggiamenti esclusivi) durante un certo periodo di tempo specifico. Ma tra breve sarà la dott.ssa Clerico, che da anni si occupa del problema, ad illustrarci questi metodi.

§ Se un bambino è in grado di comunicare bene verbalmente e dice di non avere dolore, bisogna credergli. (FALSO)

Se il bambino nega di sentire dolore quando è evidente un danno ai tessuti o quando il suo comportamento alterato rivela il dolore, si devono indagare a fondo le ragioni della contraddizione fra reperti fisici, comportamento e dichiarazioni verbali. Alcune paure possono spingere i bambini a celare il proprio dolore. Inoltre, bambini che stanno male da molto tempo o bambini in cui il dolore è cresciuto gradualmente possono non rendersi conto che la sensazione che stanno provando è dolore. I bambini possono negare liberamente ed in maniera efficace il proprio dolore o possono mascherarlo perché sono convinti che ammettere di avere dolore possa dar luogo a spiacevoli conseguenze.

I bambini, inoltre, hanno un’enorme paura dell’ago: iniezioni o prelievo che sia (Nespoli 1996). In uno studio (McCaffery e Beebe 1993) condotto su 242 bambini ospedalizzati di età compresa tra i 4 e i 10 anni, il 49% di essi sosteneva che l’ago o la puntura era la cosa peggiore di tutte, compreso il dolore chirurgico, di cui avevano sofferto durante il ricovero in ospedale. Se il bambino impara che quando dice di aver dolore come conseguenza "arriva l’ago", egli può decidere che è preferibile sopportare il dolore che ha, piuttosto che essere sottoposti al "sistema" per mandare via quel dolore.

Molti bambini, non avendo ancora acquisito il concetto di tempo e non rendendosi conto che l’iniezione è la causa del passato dolore (Eland 1986), non capiscono la logica che sta dietro la somministrazione di un’iniezione dolorosa nella natica per ottenere sollievo dal mal di pancia mezz’ora dopo. Inoltre, il bambino può credere che, se dice di non avere dolore, può andare a casa prima ed evitare così degli interventi dolorosi. Qualche volta il problema non sta nel fatto che un bambino nega un dolore che sa di avere ma nel fatto che lui stesso non sa riconoscerlo, specialmente quando è cronico.

Col passare del tempo, infatti, il bambino sembra perdere i termini di paragone e dimentica cosa vuol dire non avere dolore. Il bambino, inoltre, può avere difficoltà ad identificare il dolore anche quando esso non è cronico ma cresce gradualmente. Il dolore che insorge o cresce improvvisamente evoca una risposta immediata anche nel neonato ma quando il dolore cresce insidiosamente, la consapevolezza e, quindi, le risposte del bambino possono essere meno drammatiche o quasi assenti (Mccaffery e Beebe 1993).

RISPOSTA AL DOLORE ACUTO

(segni di disagio)

TEMPO Þ

ADATTAMENTO

(diminuzione dei segni nonostante l’invariata intensità del dolore)

Risposte fisiologiche

Risposte fisiologiche

Pressione sanguigna

Frequenza cardiaca

Frequenza respiratoria

Pupille dilatate

Sudorazione

Þ

Normale pressione sanguigna

Normale frequenza cardiaca

Normale frequenta respiratoria

Normale diametro pupillare

Cute asciutta

Risposte comportamentali

Risposte comportamentali

Si focalizza il dolore

 

Riferisce il dolore

Piange e si lamenta

Si massaggia la parte dolorante

Tensione muscolare

È accigliato

Þ

 

 

 

 

Þ

Þ

Non riferisce dolore se non gli è richiesto

È tranquillo, dorme o riposa

Rivolge l’attenzione a cose diverse dal dolore

 

Inattività fisica, immobilità

Normale espressione del viso o viso espressivo

Fig. 1 confronto tra il dolore acuto e l’adattamento ad dolore (tratto da MCCaffery e Beebe 1993, pag. 4)

Secondo Gauvain-Piquard e Meigner (Sandrin 1995) il motivo del diniego è ancora più complesso. Per alcuni bambini il desiderio di proteggere l’entourage familiare e di rispondere alle sue attese, tacendo il proprio dolore, sembra essere predominante. Esprimere il proprio dolore è una specie di accusa diretta contro i familiari, che non sono capaci di proteggerli. Più profondamente, il dolore è sempre sentito come la punizione di una colpa immaginaria. Il bambino lo imputa al fatto di non essere stato abbastanza saggio, abbastanza educato. Se ne attribuisce in parte la responsabilità. Per altri (Sandrin 1995) questo tacere è frutto dell’esperienza. Hanno sentito dire talmente tante volte: "questo non fa male, tu esageri", che non esprimono più il proprio dolore. Hanno perso la fiducia necessaria per fare questa confidenza. A volte, è l’intensità stessa del dolore che riduce al silenzio, con un conseguente vissuto di solitudine assoluta, nella convinzione che ogni parola sia vana (Natoli 1998) e che dolore’altra parte gli altri (cioè i medici, gli infermieri, i familiari) dovrebbero sapere, vedere, comprendere. Per altri ancora (Sandrin 1995) il silenzio è il miglior modo di resistere. È un modo un po’ magico per illudersi che il dolore non ci sia e per non farlo esistere.

Ai miti sopracitati se ne potrebbero aggiungere altri di cui alcuni strettamente farmacologici: si è pensato, infatti, che gli analgesici potenti non dovessero essere utilizzati nei bambini a causa degli effetti collaterali e del rischio di assuefazione ed in quanto la valutazione dell’efficacia poteva risultare difficile.

Non compete a me illustrare la confutazione di questo mito; abbiamo in mezzo a noi esperti di fama europea che chiariranno l’equivoco.

Un altro ostacolo importante è la scarsa diffusione, nel trattamento del dolore pediatrico delle tecniche non farmacologiche (tecniche cognitive, comportamentali, fisiche), le quali possono essere somministrate non solo dagli operatori sanitari ma anche dai genitori, insegnati, volontari, ma sempre e comunque, in una programmazione di équipe nella quale ha parte attiva, quando è possibile, anche il bambino.

Esempi di interventi sulla sfera cognitiva sono: la psicoterapia, l’ipnosi e le sue applicazioni (quali il guanto magico e la tecnica degli interruttori), l’aiuto all’immaginazione, la distrazione (le bolle di sapone, per i più piccoli), l’attenzione, le scelte e il controllo, l’informazione, ecc.

Per la sfera comportamentale: le modificazioni comportamentali, il biofeeback, la terapia rilassante (con la musica o i clown), ecc.

Oggi sappiamo che "il mancato trattamento del dolore provoca una distruzione di personalità equivalente alla distruzione cellulare causata dalla condizione patologica stessa" (Eland 1986).

Ma, nonostante tutto ciò e i numerosi studi e progressi in questo campo, l’attenzione al problema della qualità della vita, a proposito del dolore del bambino, è in gravissimo ritardo. Oltre ai motivi descritti finora cancro’è da chiedersi se vi è qualcos’altro che fa perdurare questo comportamento contraddittorio da parte di persone, medici e infermieri, abituati in ogni momento a riconoscere le esigenze del malato in modo razionale. Forse, perché il dolore del bambino "disturba" e si vorrebbe che non esistesse (Nespoli 1996). L’adulto, operatore sanitario o genitore, adotta la strategia della rimozione, della negazione, di fronte ad una realtà che non sa spiegare e non vorrebbe in ogni modo vedere.

La nostra presenza qui, oggi, sta ad indicare, invece, che i miti e gli ostacoli menzionati appartengono ormai alla storia della pediatria e che oggi, ciascun operatore sanitario, ciascun educatore, ciascun volontario, assume la lotta al dolore del bambino fra gli obiettivi primari della sua attività. Una lotta, però, che non può prescindere da una conoscenza specifica dei meccanismi peculiari di cognizione del dolore da parte del bambino, al quale probabilmente, la sofferenza appare, istintivamente ancora più insensata che all’adulto.

In un vecchio studio sul dolore nei bambini (McCaffery e Beebe 1989), un bambino di scuola elementare completò la frase "Il dolore è" con le seguenti parole: "…quando tu urli chiedendo aiuto e nessuno viene". Vorrei terminare con le parole della dott.ssa Eland per dire a questo bambino ed ai nostri bambini, colpiti dall’esperienza del dolore, che stiamo arrivando, troppo lentamente forse, ma siamo sulla giusta strada.

Bibliografia

  1. ANAND K.J.S. (1995), Pain in the neonatal intensive care unit. IASP Newsletter, 3
  2. DALENS B. (1993), Nocicezione e dolore. In: Dalens B. (1993), Anestesia loco-regionale dalla nascita all’età adulta. Fogliazza editore, Milano
  3. ELAND J. (1986), Il trattamento del dolore. Quaderni della Fondazione Livia Benini, Quaderno 1, pp. 3-40
  4. GAUVAIN-PIQUARD A. e MEIGNER M. (1993), La douleur de l’enfant, Calmann-Lèvy, Paris.
  5. IVANI G. (1996), Il dolore postoperatorio in pediatria. In: Nolli M.; Albani A.; Nicosia F.. il dolore postoperatorio. Mosby Doyma Italia, Milano
  6. McCaffery M. e BEEBE A. (1989), Clinical Manual for nursing practice. Cap. 10. Traduzione a cura della Fondazione Livia Benini, Quaderno grande.
  7. McGRATH P.A. (1998), Dolore nei bambini. In: Kanner R., Fisiopatologia clinica e Terapia del Dolore, Mosby Italia, S. giulino Milanese 4MI)
  8. MORETTI C. e OTTAVIANO C. (1998), Dolore e analgesia nel neonato. Atti del corso di aggiornamento "Terapia del dolore in pediatria", Roma, 21-"( maggio.
  9. NATOLI S. (1986), L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano
  10. NESPOLI L.(1996), L’integrazione tra la terapia farmacologica e quella non farmacologica: una nuova cultura dell’assistenza senza preconcetti. Atti del convegno ABIO, Milano, 20 novembre 1996
  11. SANDRINI L. (1995), Come affrontare il dolore. Paoline Ed., Milano.
  12. WISMAN J.S. e SCHECHTER N.L. (1991);, Il trattamento del dolore nel paziente pediatrico. Pediatrics in review, 4, 112_119
  13. KUTTNER L. (1999), Presentazione del video "Niente paura, niente lacrime. 13 anni dopo", Firenze


 

Metodi di valutazione del dolore in età pediatrica

A. Clerico – F. Libera

Dipartimento di Pediatria dell’Università "La Sapienza" di Roma

 

Il dolore è per il bambino, così come per l’adulto, un’esperienza spiacevole sia a livello sensoriale che emozionale. Si è a lungo discusso se i neonati possano sentire dolore, a causa dell’immaturità del loro SNC, soprattutto per la incompleta mielinizzazione delle fibre nervose. Alcuni studi eseguiti su tale questione hanno mostrato che i neonati avvertono il dolore. Confrontando l’uso di analgesici in età adulta ed in età pediatrica risulta evidente che i bambini ricevono meno frequentemente ed in piccole dosi i potenti oppioidi. I neonati, inoltre, hanno ancora minor possibilità di ricevere un adeguato trattamento per il loro dolore. Le ragioni per privare dell’adeguata analgesia tale fascia di pazienti sono numerose ed includono: una errata preoccupazione che essi possano essere danneggiati dall’uso di tali farmaci, la persistente errata nozione che i bambini non rispondano al dolore nello stesso modo degli adulti, nonché frequenti errori nella posologia.

La percezione del dolore è altamente soggettiva ed estremamente variabile (tab.1); differenze in tal senso sono state più volte descritte tra pazienti diversi per sesso, età, stato sociale, etnie e paesi. Inoltre la comunicazione di una esperienza così altamente soggettiva è fortemente legata alle capacità verbali e ciò pone il bambino in grave svantaggio nel trasmettere il grado della propria sofferenza.

Definizione 1 : Concreta. Il dolore è "una cosa", "qualcosa", "esso". Viene definito mediante una localizzazione nel corpo o tramite le sue spiacevoli proprietà fisiche; qualcosa che fa male, o è associata ad una malattia o un trauma.

Definizione 2 : Semiastratta. Il dolore è descritto in termini di sentimenti o sensazioni, senza una specifica correlazione ad una parte del corpo. I bambini usano dei sinonimi, quali male o crampo, per descrivere la qualità del dolore o lo descrivono come associato ad una malattia.

Definizione 3 : Astratta. Il dolore viene descritto in termini fisiologici, psicologici o psicofisiologici. I bambini si riferiscono ad un substrato fisiologico o scopo del dolore – dolore come danno che parte dai nervi. Il dolore è anche emozionale, inteso come preoccupazione, ansia o depressione.

Tab. 1 Definizioni infantili del dolore.

I bambini possono reagire al dolore con atteggiamenti di distacco, pensando che il dolore sia normale e debba essere tollerato o negandolo per paura dell’ulteriore stress associato al trattamento. Tale distacco può essere interpretato dallo staff come segno di benessere o di adeguata reazione al trattamento. È necessario dunque migliorare i metodi di valutazione del dolore per consentire un miglior trattamento specialmente nei bambini in età prescolare e preverbale per i quali la comunicazione è molto difficile. Per superare tali inconvenienti sono stati formulati numerosi metodi di valutazione che fanno perno sulle autovalutazioni oppure sugli indici comportamentali. Tali sistemi sono risultati più volte ugualmente efficaci nel valutare il dolore anche nei suoi aspetti più controversi.

Restano comunque problemi di quantificazione del dolore nel bambino. Ad esempio la differenziazione tra ansia e dolore e le modificazioni comportamentali tipiche delle successive fasi dello sviluppo del bambino modificano significativamente la risposta al dolore e possono rendere alcuni test adeguati solo ad alcuni gruppi di età.

L’approccio generale, le tecniche specifiche e le nuove idee su come controllare il dolore del bambino sono inestricabilmente legate alle nostre conoscenze circa il meccanismo fisiologico di percezione del dolore che trasforma lo stimolo nocicettivo in una percezione del dolore con attributi unici di localizzazione, durata, intensità e costruisce la cornice per lo sviluppo dei metodi farmacologici e non farmacologici utilizzati nel controllo del dolore. Noi oggi sappiamo che il sistema nocicettivo è un sistema sensorio molto più sensibile e complesso di quanto si credesse. Il sistema che media la nostra percezione del dolore è meravigliosamente complesso ed ha la capacità di rispondere differentemente a diversi stimoli nocicettivi cosicché un’iniezione non produrrà necessariamente la stessa quantità di dolore per tutti i bambini e il sistema nocicettivo risponderà differentemente in relazione in relazione al differente contesto in cui il bambino riceve l’iniezione. La qualità e l’intensità del dolore non sono semplicemente correlate alla natura ed all’estensione del danno tessutale, infatti l’attività neuronale evocata da tale stimolo può essere modificata da sistemi interni di controllo.

La conoscenza degli aspetti generali sulla nocicezione sui sistemi endogeni di inibizione e sulla varietà di fattori interni ed ambientali che possono modificare il dolore è necessaria non solo per selezionare le più appropriate tecniche terapeutiche, ma anche per la ottimale applicazione di tali metodiche. Il razionale per la scelta di un particolare trattamento nel bambino, deve considerare le condizioni o la natura dello stimolo che provoca il dolore, nonché le situazioni e le emozioni che possono infierire sul dolore.

I metodi di misurazione del dolore possono essere classificati come comportamentali, psicologici o fisiologici, in base al tipo di risposta al dolore che viene misurata (Tab. 2).

 

 

Comportamentali-osservazionali

Posizione del corpo

Comportamenti specifici del dolore

Espressioni facciali

Pattern di vocalizzazione o pianto

 

 

Fisiologici

Riflessi

Freq. Cardiaca

Freq. Respiratoria

Indice di fatica

Livello di b -endorfine

Psicologici

Proiettivo

Self-report

Colori

Forme

Illustrazioni

Disegni

Visual analog scales

Interviste

Questionari

Termometri

Facial scales

Tab.2 Metodi per stimare il dolore in bambini ed infanti.

I metodi di misura comportamentali includono alcune procedure di osservazione con le quali vengono i diversi tipi di comportamento che i bambini manifestano in presenza di dolore, così come la frequenza con cui si manifestano (es. la durata del pianto di un bambino durante un’iniezione). Presumibilmente una valutazione oggettiva della natura e della frequenza dei comportamenti manifestati dai bambini in presenza di dolore, fornisce una accurata stima dell’intensità delle loro esperienze dolorose.

La misurazione di tipo fisiologico del dolore include una varietà di tecniche che monitorizzano le risposte corporee ad uno stimolo nocicettivo, come ad esempio, l’aumento della frequenza cardiaca o respiratoria. Una descrizione della natura e dell’estensione delle risposte corporee al dolore potrebbe costituire un indice oggettivo per l’esperienza algica infantile. Sia le metodiche comportamentali che quelle fisiologiche forniscono una stima indiretta del dolore, poiché la presenza o l’intensità del dolore del bambino è desunta solamente dal tipo e dalla grandezza delle loro risposte comportamentali e/o fisiologiche allo stimolo nocicettivo.

I metodi di misura psicologici, che valutano la percezione del dolore secondo la prospettiva infantile, possono fornire una stima indiretta delle diverse dimensioni del dolore.

Al fine di valutare il dolore sono state costruite delle scale quantitative e/o qualitative, l’uso delle quali può fornire utili informazioni riguardo l’intensità, la localizzazione, la durata e la qualità della sensazione algica. I valori numerici associati ai diversi livelli di queste scale sono generalmente selezionati dalla scala di riferimento degli adulti, in rapporto al tipo e al numero di livelli considerati. Il problema comune nell’interpretazione del dolore infantile in base alle risposte delle scale di valutazione è che il punteggio osservato è spesso basato su un numero arbitrariamente assegnato da chi sottopone il bambino al test (es. assenza di dolore = 1; dolore medio = 2; dolore importante = 3) e può quindi non riflettere la reale differenza nei livelli di dolore del bambino.

I metodi più utilizzati sono raggruppati come:

Le eterovalutazioni vengono effettuate dal personale medico, infermieristico o dai genitori, esse però da sole non consentono di inquadrare totalmente il problema essendo estremamente vasta la gamma di reazioni comportamentali possibili.è quindi sempre necessario associare ai risultati così ottenuti quelli desunti dall’autovalutazione.

Tra i metodi di autovalutazione molto usata è la "affective facial scale" (P.A. McGrath), che consiste in una serie di facce con diverse espressioni che sono usate per valutare le dimensioni affettive del dolore, il valore numerico presente sotto ciascuna faccia rappresenta l’intensità del dolore dipinto sulla faccia dal punto di vista dei bambini (Fig. 1).

AUTOVALUTAZIONE

"affective facial scale"

Fig. 1: Affective facial scale

Il termometro del dolore consiste in una scala, verticale od orizzontale, graduata da 0 a 10 o da 0 a 100; 0 è generalmente designato come assenza di dolore, mentre l’altro estremo come "il massimo dolore possibile". Il bambino indica il livello che viene raggiunto dal suo dolore (FiG. 2).

Massimo dolore

10

9

8

7

6

5

4

3

2

1

0

Assenza dolore

Fig. 2 Termometro del dolore

Non tutti i metodi di misurazione del dolore sono ugualmente appropriati a tutti i bambini e a tutte le condizioni dolorose, è stata, infatti, riscontrata una differenza di validità dei metodi di auto ed eterovalutazione in rapporto all’età del bambino ed alla possibilità o meno di effettuare l’autovalutazione (tab.3).

La scelta di una metodica appropriata richiede un’attente considerazione della accuratezza delle misure disponibili in relazione all’età, al sesso e al livello cognitivo del bambino e alla natura del dolore.

Età (anni)

AUTOVALUTAZIONE

ETEROVALUTAZIONE

COMPORTAMENTO

PARAMETRI FISIOLOGICI

0-3

NON DISPONIBILE

PRIMARIA IMPORTANZA

SECONDARIA IMPORTANZA

3-6

SCALE SPECIFICE, DISEGNI

PRIMARIA IMPORTANZA SE NON VIENE ESEGUITA L’AUTOVALUTAZIONE

SECONDARIA IMPORTANZA

> 6

PRIMARIA IMPORTANZA

PRIMARIA IMPORTANZA

-

TAB. 3 Metodi di valutazione del dolore in rapporto all’età.

Nel reparto di Oncologia Pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma, sono stati particolarmente usati per la valutazione del dolore diversi metodi di etero ed autovalutazione tra cui l’affective facial scale (fig.1), la scala eterocromatica di Huskisson (fig.3), il metodo Karnofsky modificato per l’infanzia (fig.4).

Fig. 3. Autovalutazione: "Scala Eterocromatica di Huskisson"

Le scale utilizzate si sono rivelate utili per aumentare la capacità di rilevazione dell’intensità del dolore nel setting clinico, esse, tuttavia, non sono senza limitazioni: possono infatti essere specifiche per l’ambito in cui sono state sviluppate e possono non iquadrare le variazioni comportamentali tipiche dell’adolescenza.

Scheda del dolore : ETEROVALUTAZIONE

ALIMENTAZIONE

GIOCO

PIANTO

LINGUAGGIO

POSIZIONE ANTALGICA

  • Normale
  • Scarso appetito
  • Mangia dopo insistenza
  • Non assume nulla

 

0

1

 

2

3

  • Normale
  • Solitario
  • Poco
  • Assente

0

1

2

3

  1. Occasionale
  2. Frequente
  3. Continuo
  4. Gemito o lamento

0

1

2

3

  1. Normale
  2. Poco
  3. Risponde appena
  4. Non parla

0

1

2

3

  1. Nessuna
  2. Protezione parte dolente
  3. Posizione obbligata
  4. Assoluta immobilità

0

1

2

3

Fig. 4: ETEROVALUTAZIONE: Metodo Karnofsky modificato per l’infanzia.

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Portnoy R.K. Cancer pain epidemiology. Cancer 1989; 63:2298-307
  2. Schecter N.L, Allen DA, Hanson K. Status of Pediatric Pain: a comparison of hospital analgesic usage in children and adults. Paediatrics 1986; 77:11
  3. Babsum A.L, Fields HL. Endogenous pain control system: brainstem spinal pathways and endorphin circuity. Ann. Rev. Neurosc. 1984;7; 309-338
  4. Arner S. Myerson B.A. Lack of analgesic effect od opioids on neurophatic and idiopathic form of pain. Pain, 1988:33:11-23
  5. AR Lloyd-Thomas. Pain management in Paediatric patients. British Journal of Anaesthesia, 1990; 64:85-104
  6. SA Grossman. Is pain undertreated in cancer patients? Advances in Oncology 1993; 9-12
  7. AW Miser, JS Miser. Management of Childhood Cancer. In: Pizzo, Poplack (eds): Priciples and Practice of Pediatric Oncology, p. 1039-1050. Philadelphia, JB Lippincott 1977
  8. A Goldman. Pain Management. Archives of disease in chilhood 1993; 68: 423-25
  9. Katz E.R., Kellerman J., Siegal S.; Behaviour distress in children with cancer undergoing medical procedures: developmental considerations. J. Consult Clin Psycol. 1980; 48:356
  10. JF Keefe and J. Lefebvre; Pain behaviour concepts: controversies, current status, and future directions. Progress in Pain Research and management 1994; 2:127-147
  11. SC Lawrie, DW Forbes, TM Akthar, NS Morton. Patien-controlled analgesia in children. Anaesthesia 1990;46:1074-76
  12. Magni G. The use of antidepressants teatments in chronic pain. Drugs 1991; 42:743
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  15. PA McGrath; Pharmacological interventions for alleviating children’s pain. In Pain in Children: Nature, Assesment, and Treatment. Guilford Press 1990:309-354
  16. PA McGrath; Pharmacological interventions for alleviating children’s pain. In: Pain in Children: Nature, Assesment, and Treatment. Guilford Press 1990:309-354
  17. A. Clerico, G. Ragni, A. Antimi, A. Sordi, M.A. Castello; Importanza della combinazione dei metodi di etero ed autovalutazione del dolore per una corretta terapia antalgica. Atti del Corso di Aggiornamento "Terapia del dolore in pediatria" XX congresso AISD, Roma, 21-24 maggio 1998.

 


 

L’influenza del dolore e della disabilità cronica

sullo sviluppo della personalità

Massimo Capoleoni

Primario Psichiatra – Ospedale S. Spirito di Roma

"mi sembra, peraltro, che l’anima ed il corpo

interagiscono a vicenda,

per cui un mutamento nella condizione dell’anima

produce un cambiamento nella forma del corpo,

e viceversa un mutamento nella forma del corpo,

produce un cambiamento nel modo di essere dell’animo"

(Aristotele, Physiognomica, cap. IV)

 

Quello che è stato magistralmente espresso da Aristoltele va considerato allargandolo all’ambiente più ampio di chi possiede quel corpo e quell’anima e di tutti gli altri, corpi ed anime, che formano la sua famiglia in senso stretto e in senso ampio. Con questo si vogliono intendere i familiari ed anche tutti coloro che si prendono cura del bambino in modo importante, sia per il tempo dedicatogli, sia per l’importanza e la prossimità del rapporto instaurato con lui.

Esistono vari tipi di dolore (acuto, lancinante, sordo, cronico…), ma soprattutto esiste un dolore soggettivo ed uno oggettivabile, ed esiste il modo in cui il dolore, esperienza del tutto privata e non condivisibile, viene gestito e, paradossalmente, condiviso da coloro che sono accanto al bambino.

Al di là del fatto che il bambino malato investe ed interpreta un ruolo nel rapporto con gli altri (ruolo di malato rispetto al curante o di invalido rispetto all’aiutante) e che questo ruolo può modificarsi nel tempo, ad esempio a seguito di guarigione o stabilizzazione, e richiederà quindi la modifica del ruolo del curante e delle figure di supporto, ci interessa qui sottolineare come il modo di vivere il dolore possa determinare mutamenti importanti nel modo di essere, nella personalità del bambino che diventa adulto. Molti studi mostrano che il bambino tende ad affrontare il dolore e la disabilità con i modelli che assume dagli adulti che gli sono intorno. Sappiamo che la valutazione soggettiva del dolore può cambiare in maniera anche notevole a seconda di come il dolore viene affrontato da chi lo circonda. Nel caso di un bambino che sta male, abbiamo anche degli adulti che si confrontano con lui: la situazione è stressante anche per i familiari, i quali si trovano impotenti ad affrontare in modo risolutivo il problema del bambino. Il modo in cui gli adulti accetteranno ed elaboreranno o semplicemente subiranno questa impotenza è un modello per il bambino. In modo semplicistico, genitori disperati e impotenti saranno un ulteriore danno per il bambino, mentre genitori realisticamente ottimistici e capaci di affrontare e metabolizzare la ferita al proprio narcisismo ed alla propria onnipotenza, potranno essere capaci di aiutare il bambino.

Una disabilità temporanea o permanente provoca senso di perdita, depressione, lutto. Strategie come la negazione o la razionalizzazione hanno efficacia per eventi stressanti di breve durata ma non per eventi cronici. Una risposta efficace all’evento stressante può servire a strutturare una corretta modalità di confronto con altre situazioni stressanti che si potranno verificare.

È importante dunque l’atteggiamento psicologico con cui si affronta il dolore come componente essenziale di molte prove di iniziazione che si svolgono in molte civiltà e che vengono assunte come criterio per poter accedere al gruppo degli adulti. Il dolore sia quello psichico che quello fisico è una componente ineludibile dell’esperienza umana. Se ad esempio si dice che i maschi non piangono e se il bambino che piange viene definito "una femminuccia" si carica la capacità di sopportare il dolore di una valenza diversa, quella dell’appartenenza al gruppo di genere. Se si sopporta il dolore si è maschi, altrimenti si è reietti, addirittura "invertiti". È evidente che il dolore e la capacità di tollerarlo ha avuto ed ha una valenza che trascende la soggettività dell’individuo. Sicuramente dobbiamo giungere a vedere più liberamente il dolore; saranno altre le cose che ci dicono se una persona è rispettabile o meno. Certo, non ci si può arrogare il diritto di giudicare una donna che chiede di evitare il dolore del parto anziché accettarlo, ma il dolore può essere una difficoltà da accettare e superare, qualcosa che offendendo il nostro narcisismo e vanificando i nostri sogni di onnipotenza, ci aiuta a crescere. Anche sul piano medico esiste un dolore che è sintomo e che come tale va rispettato. Dare un antidolorifico prematuramente in un caso di dolore addominale può essere un errore medico con dome acuto. Non si vuole affermare che esiste un dolore buon, ma che il dolore non è né buono né cattivo, fa male. Ma forse esiste un dolore utile e uno inutile. Va attaccato e combattuto il dolore inutile e la valutazione della inutilità può essere soggettiva, oltre che oggettiva.

Vi è un dolore e una disabilità, che può essere occasione per crescere, per maturare, apprezzare la vicinanza e l’aiuto degli altri, renderci più sensibili e più semplici, meno soli, capaci di farci aiutare, e talvolta non è affatto facile e di aiutare. È quello di cui ci parlano ad esempio alcune madri che avendo figli gravemente ammalati hanno potuto condividere con altre madri, nella stessa situazione, angosce e speranze. Situazioni in cui, anche dopo un esito infausto, questi genitori dicono di aver conosciuto un mondo di persone buone capaci di aiutare.

E vi è un dolore, o una disabilità, magari lo stesso, che, vissuto in modo diverso, diventa luogo e modello per indurirsi, diventare più cattivi, cinici, soli; incapaci di trovare piacere e gioia nella propria vita, incapaci di gioire della gioia degli altri. Questo dolore, e può essere lo stesso, ci rende rabbiosi, astiosi, invidiosi: temporaneamente sollevati solo quando anche gli altri soffrono, quando chi ci sembrava felice diventa disgraziato.

Esistono più disabilità, o handicap, di quanto non consideriamo.

Il deficit visivo, che si associa alla notazione "guida con lenti" sulla patente, è un handicap, prima vissuto come permanente, adesso, con le moderne tecniche di intervento, come non più permanente; la stessa considerazione può valere, ad esempio, per la sterilità maschile o femminile che sia. Aldilà del fatto che situazioni di disabilità, considerate stabili fino a qualche tempo fa, e che non lo sono più adesso, ci porta a considerare come temporanea qualsiasi tipo di inabilità, rimane il fatto che questa può are origine a modi di essere completamente diversi. Ne è un chiaro esempio il giudizio salomonico della donna sterile e della vera madre, che reclamavano lo stesso figlio. Talvolt, essere genitori negati dalla natura, non solo non nega, ma esalta capacità genitoriali, svolte verso un bambino adottato, o dei nipoti o semplicemente degli allievi. Quello che può accadere è che una grave sofferenza può portare ad una maturazione o ad una perversione dell’io di chi soffre e questo dipenderà in grandissima misura da come chi si prende cura del bambino affronterà la sofferenza.

Quello che bisogna fare è dare al dolore il suo giusto valore: certamente non può essere visto semplicemente come una croce che ci esalta, ma nemmeno come il segno che siamo nati sotto una cattiva stella, che il cielo non ci vuole bene o peggio che nessuno ci vuole bene o che tutti coloro che ci vogliono bene sono totalmente impotenti. Anche la situazione del dolore e dell’handicap è relativa, può essere maggiore o minore se confrontata con situazioni analoghe.

Quindi non ritengo che si debba sempre e comunque ricorrere all’antidolorifico; pensando che talvolta si può impiegare qualcosa in più in capacità di condividere, di spiegare, di aspettare, di programmare, di diminuire l’ansia e la paura. Condividere il dolore, che è privato e indivisibile, aumenta la capacità di sopportare il dolore e può trasformare in senso positivo la personalità di chi soffre e di chi gli è vicino.

 

BIBLIOGRAFIA

 


 

Il dolore del neonato

Caramazza L., Mancini F., Celano S., Carpino V.

Unità operativa di Anestesia e Rianimazione Neonatale e Pediatrica e Terapie speciali

Azienda Ospedaliera Santobono Pausilipon, Napoli

Nel VI sec. A.C., Susruta, un medico indiano asserì che il feto diventa conscio di ciò che lo circonda alla dodicesima settimana, a cinque mesi acquista una memoria ed a sei un intelletto. In epoche più recenti ha prevalso la convinzione che il neonato non provasse alcun dolore a seguito di stimoli algogeni di varia entità, o quanto meno non ne serbasse il ricordo a causa della mancata mielinizzazione delle fibre responsabili della maturità del sistema nervoso centrale.

Studi neurofisiologici, tesi a valutare lo sviluppo delle capacità sensoriali del feto e del neonato, hanno evidenziato una serie di risposte di stress, cardiocircolatorie, metaboliche ed ormonali in grado non solo di compromettere le condizioni cliniche del neonato, ma anche di influenzare lo sviluppo comportamentale.

L’interesse sull’argomento ha fatto in modo che si creassero delle scale di valutazione del dolore onde rilevare le esperienze nocicettive del neonato al fine di fornire, ove necessario, un adeguato trattamento analgesico.

 

La Fondazione Livia Benini

Lucia Benini

Presidente Fondazione di Livia

"Il filo di Livia…dal lutto all’azione": questo è il titolo di un articolo francese della rivista Soins, uscito nel lontano 1993, che racconta la storia della Fondazione, della leucemia fulminante che si è presa Livia in ventisette giorni, a tredici anni, e di quanto è stato intrapreso per ricordare la sua giovane vita.

Racconta bene l’autrice dell’articolo che le fondazioni nascono sempre con uno scopo e che nel corso del loro cammino cambiano spesso rotta, si adattano alle situazioni che incontrano, cercano di rispondere ai bisogni del momento, spesso alle emergenze, cercano di essere presenti dove sentono una mancanza.

Nel 1989 quale era una vera grande, non riconosciuta mancanza?

 

Il Controllo del Dolore nel Bambino

Gli Stati Uniti avevano appena iniziato nell’ottobre del 1988 con la Consensus Conference a Chester in Connecticut a riconoscere pubblicamente l’esistenza del problema.

Due genitori, lui medico, lei infermiera, avevano da poco perduto di leucemia un loro figlio di tre anni e avevano vissuto il suo dolore senza poterlo controllare.

È la storia di sempre: si perde un figlio si inizia una battaglia. Quanti genitori ho incontrato sul mio cammino in questi undici anni di battaglie!

e… nel 1989 appena 9 mesi dopo gli Stati Uniti, l’Europa e proprio l’Olanda, paese quasi sempre all’avanguardia in tutto, organizza a Maastricht in giugno la "First European Conference on Pain in Children".

Italiani, cinque: quattro dottori e una madre.

Ma nel ’90 uno dei quattro dottori, il prof. Carlo Guazzelli, primario di ematologia dell’Ospedale dei Bambini "Anna Meyer" a Firenze e presidente dell’AIEOP, ci offre una giornata intera sul Controllo del Dolore del Bambino. All’epoca ci voleva coraggio a inserire in un congresso nazionale sulle leucemie e sui tumori un tema del genere.

I ritornelli più comuni che io ricordi sono: ma ci sono i vecchi sistemi delle tate che hanno funzionato sempre benissimo!

Oppure: i Bambini piangono lì per là, ma poi dimenticano!

Oppure: ma i Bambini non sentono male, hanno solo paura! (come se la paura non fosse dolore), oppure, oppure, oppure.

Noi ci lanciammo nell’avventura: invitammo uno degli esperti della Consensus Conference Statunitense: la dottoressa Jo Eland, infermiera, PhD e un’altra infinità di titoli e specializzazioni, ma … soprattutto un © tutto per i Bambini. Lei parlò, sì, ai dottori la mattina, ma (altra novità) alle Infermiere il pomeriggio (uso il termine femminile perché vince la maggioranza!).

La fondazione ha sempre considerato le Infermiere parte prima del Controllo del Dolore del Bambino; ha fatto in modo che quattro di loro andassero negli USA, dalla dottoressa Eland all’Università di Iowa, a seguire il Corso che lei conduce sulla Terapia del Dolore. Lei stessa è poi tornata a trovarci a Firenze, dove si è incontrata con molte delle Caposala del Meyer in modo molto informale nel nostro 7© L (un piccolo "luogo" della fondazione, accanto all’ospedale). Molte domsnde e molte risposte in un’atmosfera vivacissima, impossibile da creare in un simposio o in un congresso. Se a qualcuno interessa cancro’è un sito aggiornatissimo e sempre in crescita sul Dolore del Bambino:

http://pedpain.nursing.uiowa.edu

Per tornare al ruolo delle Infermiere: sono loro che stanno accanto al Bambino ventiquattr’ore al giorno, lo consolano, gli fanno le coccole, ci scherzano e nel frattempo parlano con i genitori e si fanno raccontare tante cose della vita della famiglia che in quel momento sta combattendo una così dura battaglia.

Quindi secondo noi vanno sostenute, informate, aiutate e sempre seguendo questo concetto, in marzo a Firenze, abbiamo organizzato insieme all’Ospedale Meyer il Primo Corso Propedeutico alle Tecniche non Farmacologiche condotto dalla dottoressa Leora Kuttner, uno dei 25 esperti di Gargonza e da altri due dottori americani. Il corso per 50 partecipanti: dottori, infermieri, psicologi, fisioterapisti, musicisti è stato seguito con particolare intensità e partecipazione. Siamo partiti e arrivati in cinquanta! Un record! Ora speriamo che la d.ssa Eland possa tornare quest’anno anche lei proprio per un corso sul Dolore.

A proposito di Genitori: abbiamo tradotto e distribuito otto anni fa una guida per loro, intitolata "Meno Dolore per i Bambini Malati" di P.McGrath, A. Finley e J. Turner da loro regalataci. Noi consideriamo i Genitori i veri e più attendibili interpreti del Dolore del loro figlio; non esagerano mai, state tranquilli.

Anche quello negli anni novanta era un Mito da sfatare, uno dei tanti!

Da quella data fiorentina del 26 aprile 1990, noi abbiamo iniziato a fare i "commessi viaggiatori" del Controllo del Dolore del Bambino. Dove ci chiamavano e dove, se possibile, andavamo: da Sondrio a Catania, da Gallarate a Grosseto sempre con i nostri quaderni rosa pieni di informazioni, per la maggio parte provenienti dall’estero e curati dal prof. Piero Moggi, primario di Pediatria dell’Ospedale "S.S. Annunziata" di Firenze alla cui memoria vorrei dedicare quello che sto dicendo.

Il suo amore per Livia e per tutti i Bambini che hanno avuto la fortuna di essere curati da lui, è sempre stata le luce più forte che ha illuminato il "filo di Livia".

Quel filo ci ha poi condotti nel ’93 a ottenere di creare, per e con l’O.M.S., la "settimana di Gargonza" di cui vi parlerà Franca Benini, uno dei 25 membri di quell"incredibile gruppo.

Un fuoco dolore’amore lo animò e l’esperienza è rimasta nel cuore di tutti come un marchio speciale.

Ora abbiamo le Linee Guida per il Dolore nei Bambini, ma questo librino verde DEVE entrare nel cuore dei "CURANTI", cioè di tutti:

pediatri, oncologi, ematologi, infermiere, terapisti, psicologi, genitori, volontari, TUTTI veramente TUTTI se vogliamo cambiare lo svolgersi della malattia e renderla più vivibile. Siamo dunque ancora all’inizio e abbiamo bisogno di molto entusiasmo e molta energia.

Quest’anno a Firenze è successo un altro miracolo: è nato all’Ospedale Meyer il Servizio di Terapia del Dolore di cui il dr. Messeri è il Coordinatore ed entusiasta realizzatore e di cui vi parlerà tra poco.

Il nostro augurio è che ogni ospedale pediatrico in Italia abbia, al più tardi nei prossimi 5 anni, un Servizio del genere che si propone di CONTROLLARE il dolore in ogni reparto, perché in ospedale spesso, troppo spesso, il

"Dolore c’è ma non si vede".

Questa è la storia abbreviata del nostro cammino, ma la viviamo anche con la musica, perché con la musica noi cerchiamo di entrare nel cuore dei "nostri" Bambini.

Il programma della "Musica in Ospìedale" è un fiore all’occhiello della fondazione di cui siamo molto fieri e felici. L’abbiamo copiata dai francesi ed è un modo veramente straordinario per distrarre, consolare, cantare, chiacchierare con Bambino e Genitori. La Musica ha fatto sì che in reparto si aspetta che arrivino i "musicanti" (sei e tutti giovani, tra cui due studenti di medicina). Abbiamo tanti strumentini che vengono da varie parti del mondo e così spesso si crea un’orchestrina in ogni stanza dove ci sono almeno due Bambini e due Genitori.

Abbiamo fatto questo video "Musica in Ospedale" soprattutto per mandarlo negli ospedali pediatrici del nostro paese, sperando che il seme cresca e diventi un bell’albero pieno di note.

Questa è sempre stata la nostra filosofia e la nostra speranza: tutto quello che abbiamo messo insieme, cercato e trovato in altri paesi, comprato o avuto in regalo è sempre a disposizione di tutti coloro che dei Bambini si prendono cura con amore. Tutto il nostro materiale si può copiare, riprodurre, usare.

Come ultima parte del nostro lavoro, non certo la più lieve, vorrei parlarvi del tentativo di essere accanto ai Genitori del reparto di OncoEmatologia e agli Adolescenti e ai Bambini ovviamente con una presenza il più possibile delicata, con silenzioso ascolto e tanti piccoli modi per farli sentire meno soli. Portiamo libri un po’ particolari che li possono forse sostenere, alcuni di Jampolsky di cui seguiamo il pensiero e le linee guida(io sono appena tornata da un grande incontro in California dell’Attitudinal Healing, la Guarigione degli atteggiamenti Mentali) di tutti coloro che lavorano per cercare con l’Amore di mandar via la Paura e Guarire lo Spirito e quindi aiutare il Corpo. Siamo naturalmente vicini a quelli che devono dire addio ai loro figli. In quel tempo così colmo di un Dolore che per fortuna non tutti provano, essere accanto alle famiglie è un dono che ci ha negli anni regalato così tanta gratitudine e tanta amicizia e tanto di tutto quello che di bello cancro’è sulla terra che ci riteniamo fortunati. Il filo di Livia ci ha condotti fino alla soglia delle loro case e i nostri cuori si sono uniti in una grande treccia d’amore.


 

Presentazione delle Linee Guida

dell’Organizzazione Mondiale delle Sanità

per il controllo del da cancro e cure palliative

Franca Benini

Dipartimento di Pediatria di Padova

La gestione del bambino affetto da neoplasia non può prescindere da una corretta valutazione e terapia del sintomo dolore: sintomo che fra tutti, più mina l’integrità fisica e psichica del piccolo paziente e più angoscia e preoccupa la famiglia.

Del resto il problema è certamente impegnativo e complesso, sia per la molteplicità e frequenza delle situazioni in cui il dolore si presenta, sia per le notevoli difficoltà che valutazione e trattamento comportano.

Diverse le cause di dolore in corso di patologia neoplasica: dolore correlato alla malattia stessa(invasione tissutale o compressione); legato ai presidi terapeutici adottati (mucositi, processi postoperatori, infezioni localizzate o generalizzate, neuropatie,…) o alla esecuzione di procedure diagnostiche e/o terapeutiche (puntato midollare, puntura lombare, biopsie…). La letteratura ci conferma che più del 50% dei bambini con tumore presentano dolore in qualche fase della loro malattia; la percentuale sale al 100% se si considera il dolore legato a procedure invasive diagnostiche e/o terapeutiche.

Nonostante questi numeri, per molto tempo molto limitata è stata l’attenzione rivolta a questo sintomo nell’ambito dell’oncologia pediatrica. False convinzioni, paure, preconcetti ed equivoci "scientifici" riguardo al dolore ed il suo trattamento, come pure reali difficoltà di valutazione e carenza di ricerche e studi, hanno fatto sì che il problema dolore, e di conseguenza le necessità analgesiche ed anestetiche, venissero spesso sottovalutate. Negli ultimi due decenni però, l’interesse nei confronti di questo problema è gradualmente aumentato.

Quindi allo stato attuale, le conoscenze acquisite ed i dati scientifici a disposizione, anche se non certamente completi, sono così vasti e consolidati da consentire una pratica routinaria dell’analgesia nel bambino con malattia oncologica. Invece si deve constatare che in ambito clinico il problema è molto lontano dall’essere risolto, il dolore rimane ancora troppo spesso una "normale" e "giustificata" componente della malattia. Il gap fra conoscenza scientifica disponibile e comportamento osservato identifica un importante problema di ricaduta della ricerca sulla qualità delle cure.

Nel 1993 la Fondazione Livia Benini promuove un incontro di esperti, sotto l’egida dell’OMS e della Associazione Internazionale per lo Studio e la Cura del Dolore, con l’obiettivo di definire delle linee guida per il controllo del dolore nei bambini affetti da cancro.

Nel 1998 l’OMS pubblica il risultato di questa riunione nel libro ‘Dolore da cancro e Cure Palliative nel bambino": strumento essenziale per la diffusione di informazioni, raccomandazioni e linee guida pratiche che possano guidare verso un approccio finalmente globale, individualizzato ed efficace ad un sintomo così destruente e complesso quale il dolore.

Nella relazione sono stati presentati i punti salienti delle linee guida, le proposte dolore’approccio clinico, educazionali, sociali ed organizzative.

 


 

Contenimento degli stati di sofferenza e del dolore

nell’Ospedale Pediatrico "A. Meyer"

Andrea Messeri

Unità operativa Terapia del Dolore

O. "Meyer" – Firenze

L’obiettivo di ridurre gli stati di sofferenza in pediatria risponde a criteri essenziali di umanità e di tutela del diritto alla salute del bambino malato. Esso è peraltro essenziale anche al raggiungimento di risultati positivi nelle stesse procedure cliniche.

Il contenimento del dolore nel bambino malato si attua attraverso vari livelli di intervento: interventi farmacologici, innanzitutto, ma anche interventi di altro genere che rimandano più in generale alla qualità dell’accoglienza di un ospedale e alla sua capacità di farsi carico dei problemi e dei bisogni del bambino, considerato come persona e dei suoi familiari.

Il Controllo del Dolore Pediatrico

In un ospedale pediatrico il problema "dolore" si presenta sotto multiformi aspetti che devono trovare una risposta ben aldilà della semplice somministrazione, peraltro importante, di farmaci analgesici. È infatti necessario un approccio integrato e multidisciplinare che permetta di capire, misurare e, quindi, adeguatamente trattare il fenomeno dolore in tutte le sue forme. Spesso accade che, oltre al dolore fisico vero e proprio, si debba trattare la paura e l’ansia che scaturiscono nei bambini dal semplice ingresso in ospedale.

Le problematiche inerenti al dolore in pazienti di età pediatrica si possono evidenziare sinteticamente nel dolore acuto, nel dolore cronico e nei problemi relativi allo stato di sedazione. Il dolore acuto ha la funzione di avvisare l’individuo della lesione tissutale in corso ed è normalmente localizzato, dura per alcuni giorni, tende a diminuire con la guarigione ed è essenzialmente rappresentato, in ospedale, dal dolore legato all’intervento chirurgico. Tale tipo di dolore è un problema più semplice da trattare rispetto al dolore cronico in quanto la sua causa è generalmente chiara e l’obiettivo da raggiungere è quello di alleviare il dolore per alcuni giorni finché non ha inizio il processo di guarigione. Attualmente le opzioni terapeutiche per il controllo del dolore acuto postoperatorio sono molteplici, ma nella maggior parte dei casi è più importante perfezionare i benefici che derivano da una qualsiasi tecnica piuttosto che preoccuparsi della scelta della tecnica stessa. Quasi ogni tecnica funziona ma deve essere adattata ai bisogni individuali del singolo paziente e della sua famiglia anche con eventuali modificazioni dei modelli organizzativi presenti nell’ospedale.

Il dolore cronico è invece ribelle ai comuni trattamenti. Ricorre nell’ambito di una malattia cronica più o meno grave, molto spesso limitativa per quanto riguarda la vita di relazione e talvolta mortale. In questi casi il dolore non può e non deve essere considerato solo un sintomo, ma piuttosto una malattia nella malattia dove, oltre al dolore fisico, coesistono molte e differenti componenti che lo rendono spesso insostenibile. Un dolore cronico per antonomasia è quello oncologico.

Il fenomeno del dolore è quindi molto complesso e può essere distinto in varie tipologie:

Aldilà della componente fisica vanno considerate diverse condizioni di sofferenza psichica:

Il Progetto Meyer di contenimento del Dolore Pediatrico

Il progetto ha come scopo di realizzare il contenimento del dolore – in tutte le sue forme – nel bambino malato, sia all’interno dell’ospedale Meyer che all’esterno.

Tale scopo potrà essere raggiunto attraverso il conseguimento dei seguenti obiettivi:

 

Gli interventi che possono aiutare i bambini a sopportare manovre dolorose, o semplicemente che generano paura, o esami diagnostici che richiedano per la loro esecuzione prolungati periodi di immobilità, possono essere schematizzati essenzialmente in interventi di tipo farmacologico e non farmacologico.

Gli interventi di tipo farmacologico sono indispensabili in moltissime situazioni e necessitano di una specifica competenza tecnica. È infatti praticamente impossibile farmacologico stare immobile e cooperante un bambino finché rimane sveglio; anche la sola somministrazione di ansiolitici non è quasi mai sufficiente e spesso è necessario ricorrere a tecniche combinate di sedazione profonda e anestesia generale . Pertanto le possibilità sono: sedazione o anestesia generale, ma si tratta di valutare qual è la scelta più opportuna per ciascun bambino.

Per una migliore qualità dell’assistenza e per ottimizzare i risultati, è opportuno che tutto il personale utilizzi dei protocolli standardizzati e linee guida.

Gli interventi di tipo non farmacologico prevedono l’utilizzo di tecniche quali la musica, i clown, l’immaginazione guidata, la distrazione attraverso attività ludiche, la respirazione ed altro ancora.

Inoltre, affinché i genitori si sentano partecipi e prendano parte alla cura del figlio, perché svolgano un ruolo attivo nel contenimento dello stato di sofferenza e dolore, occorre che possano comprendere, accettare e condividere il protocollo proposto dall’équipe. Questo, oltre a rendere i genitori parte attiva nel processo di cura del proprio figlio, contribuisce anche a permettere loro di affrontare l’angoscia e il dolore.


 

Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni né un vecchio che i suoi giorni non giunga alla pienezza (Is 65,20)

Giuseppe Celli

Frate Minore Cappuccino

Segretario Generale Movimento Francescano Italiano

(MOFRA) - Roma

Se è vero quanto dice Confucio che "un’immagine vale più di mille parole", inizio con un piccolo apologo, che vuol essere anche un po’ la sintesi di questo nostro dialogo.

<<Un uomo cadde in un pozzo da cui non si riusciva ad uscire. Una persona di buon cuore che passava di là disse: "mi dispiace davvero tanto per te. Partecipo al tuo dolore".

Un politico impegnato nel sociale che passava di là disse: "era logico che, prima o poi, qualcuno ci sarebbe finito dentro". Un pio disse: "solo i cattivi cadono nei pozzi". Uno scienziato calcolò come aveva fatto l’uomo a cadere nel pozzo. Un politico dell’opposizione si impegnò a fare un esposto contro il governo. Un giornalista promise un articolo polemico sul giornale della domenica dopo. Un uomo pratico gli chiese se erano alte le tasse per il pozzo. Una persona triste disse: "il mio pozzo è peggio!". Un umorista sghignazzò: "prendi un caffè che ti tira su!". Un ottimista disse: "potresti star peggio". Un pessimista disse: "scivolerai ancora più giù".

Gesù vedendo l’uomo, lo prese per mano e lo tirò fuori dal pozzo.>> (1)

Un sacerdote milanese, don Carlo Gnocchi (1902-1956), "il prete dei mutilatini di guerra", che della sofferenza degli innocenti ne sapeva qualcosa, inizia un suo prezioso testo sul dolore dei bambini con queste parole emblematiche: "molti e profondi sono i problemi che il dolore pone alla mente umana, anche se illuminata e guidata dalla fede. (…) Tipico è più conturbante di tutti è il caso dei bambini che soffrono. (…) Vale la pena studiare questo caso limite, perché io credo che quando si arriva a comprendere il significato del dolore dei bambini, si ha in mano la chiave per comprendere ogni dolore umano e chi riesce a sublimare la sofferenza degli innocenti è in grado di consolare la pena di ogni uomo percosso ed umiliato dal dolore" (2).

Dopo queste brevi premesse, apriamo il Testo Sacro. "Sia la luce!" (Gn 1,3). Queste sono le prime parole di Dio registrate dalla Bibbia. Subito dopo questo comando una voce fuori campo commenta: "e la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona" (Gn 1,3-4). Il termine ebraico tov si può tradurre con buona, ma anche (e meglio forse) con bella, armoniosa e stupenda. Il capitolo I del libro della Genesi continua a raccontarci di Dio che procede nel creare, sempre con lo stesso ritmo e l’identica espressione finale di compiacimento finché si giunge all’ultimo giorno. Al sesto giorno Dio sente il bisogno di consultarsi, il Testo Sacro non usa più il singolare, ma il plurale: "facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza" (1,26). Nel guardare l’uomo e la donna appena creati non dice più "e vide che era cosa buona" o bella, perché Dio si lascia prendere dall’entusiasmo e dalla meraviglia per quanto ha appena fatto e commenta esclamando (con coraggio, aggiungeremo noi oggi): "vide che era cosa molto buona" (Gn 1,31), molto bella, stupenda, grandiosa, straordinaria.

Ecco che cosa dice la Bibbia: la creazione è uscita dalle mani di Dio come cosa buona e bella(3), perché Dio è "il Signore amante della vita" (Sap. 11,26). "Perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli, infatti, ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non cancro’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra" (SaP. 1,13-14).

 

Cristo ha lottato contro la sofferenza durante tutta la sua esistenza terrena. Egli è venuto incontro all’umanità sofferente per liberarla dalla tirannia del male. Una liberazione lenta e progressiva, destinata ad approdare a quella città perfetta in cui dolore e morte non saranno più i cittadini privilegiati, ma da essa saranno espulsi. (23)

Tutti coloro che curano i malati, sono vicini ai sofferenti e vengono incontro ad ogni bisognoso, sono Gesù per i sofferenti di oggi. Essi aiutano Dio a realizzare il suo regno. Lo costruiscono con le proprie mani, accanto alle mani di Dio. Asciugate le lacrime sul volto di coloro che piangono è compiere lo stesso gesto che Dio riserverà a sé alla fine del tempo: "Dio tergerà ogni lacrima dagli occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno" (Ap 21,4). Ad essi è riservata la benedizione di Cristo re al momento del giudizio universale: "Venite, benedetti da Padre mio…" (Mt 25,34).

La rassegnazione, invece, come abnegazione di fronte al compito di cambiare l’ingiustizia del mondo, non è, e non è mai stata, una virtù cristiana. Il cristiano è colui che sa essere paziente, perché la pazienza è la virtù dei forti, non sarà mai un uomo rassegnato. Il vangelo è la negazione di ogni passività di fronte alla sofferenza. Un teologo tedesco protestante (24) ci dice:

"una fede in Dio, la quale giustifichi la sofferenza e l’ingiustizia del mondo senza protestare contro di esse, è una fede disumana e produce frutti satanici".

Aprendo la Bibbia, all’inizio, abbiamo incontrato il Dio creatore pienamente soddisfatto e compiaciuto per quanto ha fatto, perché era tutto cosa buona. La creazione dell’uomo e della donna hanno dato a Dio ancora più soddisfazione, perché egli ha detto che era cosa molto buona (o bella). Ora proviamo ad andare all’ultima pagina della Scrittura sacra, per ascoltare qual è il futuro della storia nel progetto di Dio. Quali sorprese ci riserva il domani.

Ci troviamo di fronte al libro dell’Apocalisse (il libro della speranza). Nell’ultimo capitolo, il XXI, incontriamo il canto di uno sposo e di una sposa che si aspettano. È il canto di Cristo e della Chiesa. La Bibbia si chiude con un canto della felicità e dell’amore.

Il dolore avrà fine. Questo è l’ultimo messaggio che ci dà il Testo Sacro. Questa è la grande certezza del cristiano. La sofferenza non durerà eternamente. L’amore, invece sì! "L’amore non avrà fin!" (1 Cor 13,8). Tutto passerà, ma l’amore rimarrà eterno.

Il vecchio Simeone del vangelo di Luca profetizza alla giovane Maria di Nazareth che una spada le trafiggerà il cuore. E così sarà. La madre di Gesù, che è stata sempre unita al Figlio fino al calvario – il cantore medievale Jacopone da Todi ci dice semplicemente: stabat mater dolorosa – c’insegni ad amare Dio con tutto il cuore, perché allora riusciremo ad amare tutti con il cuore di Dio. C’insegni a servire i sofferenti, ma con amore. C’insegni ad avere sempre un’attenzione particolare per i più bisognosi, perché – diceva Padre Pio – "Nel malato c’è Cristo, ma nel malato povero c’è Cristo due volte". Ogni sofferenza, allora, con il nostro aiuto sarà rigenerata dalla crocee, da debolezza dell’uomo, diventerà potenza di Dio.

Per comprendere quanto è importante per la chiesa il servizio che si offre ai sofferenti, vale la pena ricordare che l’indulgenza plenaria per il Grande Giubileo si può lucrare visitando le basiliche romane, i luoghi della Terra santa, le cattedrali delle diocesi, alcuni santuari, ma anche visitando e accudendo un sofferente.

E’ stato detto: "Ciò che rende sacra una terra è il nostro modo di camminarvi sopra". Camminiamo nei luoghi di sofferenza come si cammina nella stanza dove un nostro caro ci sta per lasciare, con discrezione, pudore, venerazione, rispetto, come si cammina nei luoghi sacri, allora ogni ospedale e ogni luogo dove si trova un sofferente sarà una cattedrale.

Prima di concludere ho un messaggio per voi da parte di un’amica di Salerno. Maria mi ha detto di riferirvi: "E’ difficile capire perché soffrire. Ma la mia vita, che trascorre sempre su una carrozzella, che è più importante capire per chi soffrire e come soffrire. E questo è possibile. Questa scoperta rende la vita bella e degna di essere vissuta con entusiasmo e con amore".


Aggiornamento sulle terapie farmacologiche

per il controllo del dolore acuto nel bambino

E. Vincenti e C. Tognon

Servizio di Anestesia e Rianimazione

USL 15 Alta Padovana, Camposampiero-Cittadella, Padova

Introduzione

Nonostante il sollievo dal dolore sia uno dei diritti basilari che devono essere garantiti indipendentemente dall’età di chi soffre, tuttavia ancora troppo frequentemente il trattamento del dolore in età pediatrica risulta insufficiente. Le carenze sono di ordine sia generale, con scarsa attenzione alla sofferenza acuta dell’infanzia, sia specifico, risultando comunque il trattamento del dolore spesso qualitativamente e quantitativamente inadeguato in diverse condizioni cliniche. Sono soprattutto i neonati e i bambini di ogni età in condizioni critiche ad essere trascurati, dal punto di vista antalgico, anche da chi è preposto alla loro assistenza: tra le cause più frequenti, il timore di nuocere, atavici ed ingiustificati pregiudizi legati al trattamento di soggetti nelle estreme età della vita, ignoranza dei principi basilari della farmacocinetica e della farmaco dinamica in età pediatrica, mancanza di training specifico e di supervisione qualificata, carenza di comunicazione con il personale paramedico, lasciato privo di indicazioni precise. Anche quando si decida di trattare il dolore nei bambini, raramente si prescrivono potenti analgesici in dosi adeguate e per il periodo di tempo necessario.

Recentemente Banos e al. (1999), avendo condotto in tre differenti ospedale spagnoli uno studio su dolore postoperatorio pediatrico, hanno riportato che soltanto al 52% dei bambini era stato prescritto un analgesico e che a tre su quattro di costoro la prescrizione era "al bisogno". In aggiunta, soltanto nel 68% dei casi alle prescrizioni erano effettivamente seguite le dovute somministrazioni di analgesici. Circa la metà dei bambini ai quali nulla era stato prescritto avevano necessità di un analgesico.

La classica prescrizione sotto dicitura "al bisogno" viene spesso intesa come "il meno frequentemente possibile" o come "oltre il limite di sopportazione". Nei bambini di età inferiore ai 7 anni vi può essere incapacità di verbalizzare in maniera compiuta la presenza del dolore, la sua sede, l’intensità. Per paura dell’iniezione o di eventuali rimproveri, molti piccoli pazienti tacciono soffrendo terribilmente in silenzio.

Fortunatamente stanno sorgendo servizi specifici per il trattamento antalgico in età pediatrica (pediatric pain service) a composizione multidisciplinare, in grado di provvedere con competenza al linimento del dolore acuto, post-operatorio, terminale, neuropatico e cronico, tanto in ambiente ospedaliero, quanto a domicilio, fornendo l’indicazione dei farmaci più appropriati e/o instaurando i metodi e le tecniche di terapia antalgica più adatti alle singole necessità. Tra i compiti principali, anche lo studio e l’applicazione di metodi per la valutazione del dolore, l’approntamento e la validazione di protocolli terapeutici e di linee guida, la valutazione comparativa di analgesici e metodiche antalgiche. Questo è certamente un modo razionale ed efficace per diffondere la cultura del corretto e completo controllo del dolore nel bambino.

Valutazione del dolore

La IASP (International Associatio for the Study of Pain) ha definito il dolore come "una spiacevole esperienza emozionale associata al danno tessutale attuale o potenziale, o descritto in termini di tale danno". Poiché il dolore è un’esperienza soggettiva, dal punto di vista operativo nell’adulto può essere definito come "ciò che il paziente dice di soffrire" ed esiste "quando il paziente dice di averlo". Al contrario, i bambini in età preverbale e quelli tra i 2 e i 7 anni possono essere incapaci di descrivere il loro dolore o le proprie esperienze soggettive. Tanto basta perché molti si sentano autorizzati a concludere che i bambini non provano dolore allo stesso modo degli adulti. È chiaro tuttavia che i bambini non devono necessariamente conoscere o essere in grado di esprimere uno stato doloroso per poterne avere reale esperienza. È invece il medico che deve affinare le sue capacità diagnostiche , di comprensione e di valutazione del fenomeno doloroso, perché non è possibile scindere il trattamento dal riconoscimento e dalla quantificazione del dolore nonché dalla misurazione del suo sollievo.

Nei neonati e nei lattanti dove il dolore viene valutato misurando le risposte fisiologiche agli stimoli nocicettivi, come modificazioni della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, o misurando gli ormoni dello stress. Si utilizzano anche approcci comportamentali che si basano sulle espressioni facciali, sui movimenti del corpo, sull’eccitabilità e sulla consolabilità, sull’intensità e sulla qualità del pianto in risposta al dolore (Tab.1). nei bambini da 1 a 5 anni può essere applicata una scala comportamentale tipo CHEOP (children’sedazione Hospital of Eastern Ontario Pain Scale) (semplificata) (Tab. II).

 

 

 

 

CRITERI

Punti 2

1

0

Tempi di sonno (/30 min)

Mimica dolorosa

Qualità del grido

Motilità spontanea

Eccitabilità

Contrazione delle dita delle mani e dei piedi

Suzione

 

Tono generale

Consolabilità

Interesse per l’esaminatore

Nessuno

Pemanente

Ripetitivo, acuto

Agitazione incessante

Tremori,

moto spontaneo

Globale e permanente

Assente, abbozzi casuali

 

Forte ipertonia

Nessuna

Dopo 2 min

Nessuno

Breve (5 min)

Intermittente

Modulato, normale

Agitazione moderata

Reattività eccessiva

Poco marcata e intermittente

Debole, interrotta dalle crisi

Ipertonia debole

Ottenuta in 1-2 min

Difficile da ottenere

10 min

Assente

Nessun grido

Motilità normale

Calma,

scarsa eccitabilità

Assente

Vigorosa

e pacificatrice

Normale

Meno di 1 min

Durevolmente attento

Tab 1 Punteggi di valutazione del dolore postoperatorio del neonato e del piccolo lattante (0-3 mesi)

Come integrazione alle scale di valutazione che si fondano su criteri comportamentali, nei bambini in età prescolare può essere impiegata anche una scala visuale analogica definita "test delle faccine", costituita da una faccina ad espressione "normale" da cui si dipartono superiormente da sinistra a destra 4 faccine con espressioni sempre più allegre e inferiormente altrettante faccine sempre più tristi e disperate. Recentemente è stato proposto uno strumento di valutazione simile ma più semplice, che combina una scala a 5 faccine con una scala numerica a 5 punti (Sheffield Children’s hospital pain assessment tool) (Goddard, 1996).

Dai bambini in età scolare in su, il sistema più seguito concerne l’uso di una scala visiva analogica graduata (da 0 a 100 mm) inserita su una sorta di regolo munito di cursore mobile. Si spiega al bambino che l’estremità sinistra del regolo corrisponde ad assenza completa di dolore, mentre quella di destra va interpretata come corrispondente al massimo dolore immaginabile; il piccolo paziente dovrebbe porre il cursore in una posizione intermedia dove ritiene che possa essere identificata l’intensità del dolore provata in quel momento. L’operatore prenderà nota della distanza in mm dal punto 0 a quello in cui è stato fermato il cursore. È naturalmente indispensabile che l’operatore spieghi bene al bambino come funziona il test di valutazione del dolore e a cosa serve nel suo caso. È importante soprattutto che ogni spiegazione venga fornita, nel limite delle possibilità, prima che si verifichi l’evento doloroso, per esempio prima di un intervento chirurgico, o, in ogni caso, durante la prima fase di una buona analgesia quando il bambino possa essere collaborante. Di norma la misura del dolore avviene ogni 3 - 4 ore.

 

 

CRITERI

COMPORTAMENTO OSSERVATO

PUNTI

Grida – pianto

 

 

Espressione del volto

 

 

Verbalizzazione

 

 

 

Atteggiamento corporeo

 

 

Desiderio di toccare la ferita

Arti inferiori

Assenti

Gemiti, pianti

Grida vigorose, singhiozzi

Sorride, aspetto decisamente positivo

Nessuna espressività

Smorfie, volto chiaramente negativo

Parla di cose diverse; nessun lamento

Nessuna (il bambino non parla)

Si lamenta, ma non di soffrire

Si lamenta di soffrire

Corpo in atteggiamento di riposo

Agitazione, movimenti disordinati, rigidi

Malato in piedi nel suo letto

Nessuno

Importante, irrefrenabile

A riposo o con qualche raro movimento

Movimenti incessanti; dà dei colpi coi piedi

Si mette in piedi, si accoccola o sedazione’inginocchia

1

2

3

0

1

2

0

1

1

2

1

2

2

1

2

1

2

2

Tab.II Scala comportamentale CHEOPS, semplificata, di valutazione postoperatoria del bambino da 1 a 5 anni.

Se l’analogo numerico è riferito sopra i 50 MM, viene potenziata la terapia antalgica e rimisurato il dolore dopo circa 30 minuti. Se il paziente sta dormendo in un’ora in cui dovrebbe essere misurato il dolore, se ne prenderà nota utilizzando la sigla 5 nell’apposita scheda di raccolta dati. Misurazioni che dimostrino valori inferiori a 30 MM sono considerate soddisfacenti e quindi indice di buona terapia antalgica.

È stato di recente dimostrato (Goddard 1996) che un atteggiamento di verifica e revisione (anche a breve termine) riguardo all’analgesia postoperatoria del bambino è in grado di detrrminare un notevole miglioramento degli standard assistenziali inerenti la terapia antalgica. Infatti dopo attenta valutazione dei risultati conseguiti nel corso di un periodo di 10 settimane di osservazione su olttre 300 piccoli pazienti, la modificazione degli aspetti educazionali, la divulgazione di specifica documentazione, la diffusione dell’uso di dicoflenac in bambini sopra i 2 anni e le precise raccomandazioni di prescrivere analgesia, hanno permesso di ottenere, su un corrispondente campione di pazienti, i seguenti risultati:

  1. incremento dell’iniziale prescrizione dell’analgesia, prima di lasciare la sala operatoria, dal 95 al 98% dei casi
  2. aumento di un’efficace analgesia in bambini con dolore severo dal 57 al 71%;
  3. riduzione della percentuale di bambini con dolore severo dal 17 all’11%.

Se ne deduce che una continua revisione critica delle abitudini e degli schemi terapeutici può permettere una sostanziale riduzione della sofferenza attraverso una maggiore efficienza terapeutica.

Cause di dolore acuto e relativo trattamento

Sono essenzialmente riconducibili a: 1) Chirurgia e post-operatorio; 2) trauma; 3) Ustione

1a. Chirurgia e manovre dolorose

In un recente passato si è ritenuto che i neonati non provino dolore e perciò non richiedano anestesia (Katz 1977). Un tale atteggiamento persiste tuttora soprattutto nei confronti della circoncisione, che spesso in età neonatale è praticata senza anestesia. Vari studi hanno mostrato che in tali casi i piccoli pazienti rispondono allo stimolo chirurgico con grida, movimenti vivaci, diminuzione dell’ossigenazione cutanea, tachicardia ed aumento dei livelli ematici del cortisolo. Naturalmente risposte analoghe sono osservate nei bambini più grandi. I neonati reagiscono con il pianto e con l’aumento della frequenza cardiaca anche a seguito delle piccole ferite inferte iatrogenicamente con le lancette utilizzate per il prelievo del sangue.

Il controllo del dolore chirurgico in corso di circoncisione può avvalersi di diverse opzioni: dall’anestesia generale all’applicazione di un’idonea crema anestetica per uso topico (crema EMLA, o eutectic mixture of local anesthetics), al blocco anestetico del pene e all’anestesia caudale. Le tecniche di anestesia loco-regionale, rispetto all’anestesia generale con agenti inalatori e/o con oppiace, presentano vari vantaggi, sia intra che post-operatori: a) non necessitano del controllo della pervietà delle vie aeree ne provocano depressione respiratoria; b) evitano la risposta ipercatabolica all’aggressione chirurgica; c) assicurano un più prolungato periodo di analgesia dopo la fine dell’intervento, grazie all’azione residua dovuta all’anestetico locale.

Di recente Runti & Vincenti (1996), hanno applicato come tecnica di anestesia loco-regionale per la circoncisione l’anestesia caudale n bambini di peso inferiore a 20 Kg (32 casi) e il blocco del pene in quelli di peso superiore (58 casi), ricorrendo ad una leggere anestesia generale endovenosa solo al momento dell’esecuzione dei blocchi. Si è così ottenuta una soddisfacente anestesia intraoperatoria, senza il ricorso ad ulteriore aggiustamento anestetico, rispettivamente nel 97 e nel 95% dei casi e una sufficiente analgesia post-operatoria ugualmente (e rispettivamente) nella stessa percentuale di casi. Tuttavia nel primo periodo post-operatorio, il 9% dei bambini trattati con anestesia caudale lamentò un transitorio e parziale blocco motorio agli arti inferiori.

1b. Post-operatorio

Sebbene l’anestesia intraoperatoria in chirurgia pediatrica sia sempre più e sempre meglio curata da specialisti particolarmente addestrati, tuttavia permangono diffuse abitudini a non usare blocchi nervosi periferici nei bambino e a lesinare le dovute posologie di oppiacei in corso di anestesia generale. Ne deriva che soprattutto il controllo dell’immediato dolore post-operatorio diviene spesso inadeguto nel bambino (Mather & Mackie, 1983). Non è noto con precisione quali possono essere le conseguenze sul piano fisiologico e psicologico di un insufficiente controllo del dolore post-chirurgico, ma è plausibile che si possano creare in seguito un giudizio distorto e un comportamento aberrante nei riguardi della malattia, dei medici e dell’ospedale.

Tre sono essenzialmente le possibilità tecniche del sollievo del dolore postoperatorio che possono essere impiegate in relazione ai diversi tipi di chirurgia, alle diverse età del bambino, alle abitudini del reparto, alla dotazione strumentale e alla competenza e all’abilità del personale medico e paramedico: analgesici per via sistemica (narcotici e non); analgesia controllata dal paziente (PCA, o patient-controlled analgesia); analgesia loco-regionale.

Analgesici per via sistemica

Esclusa quasi sempre la via orale, le vie praticabili sono più frequentemente la via e.v. (a boli o in perfusione continua), la i.m. e la rettale.

Gli analgesici più impiegati sono quelli denominati comunemente con gli acronimi FANS (Farmaci Antiinfiammatori Non Steroidei) o NSAID (nòn-steroidal anti-inflammatory drugs) e definiti più semplicemente come non narcotici. La loro azione analgesica si esplica prevalentemente mediante il blocco della produzione periferica di eicosanoidi, incluse le postaglandine. Attivi comunemente sul dolore osseo, reumatico e associato a un processo infiammatorio, presentano sfortunatamente un effetto "soglia", ragion per cui, indipendentemente dall’aumento della dose, non consento un ulteriore sollievo del dolore in caso di effetto parziale. Per tale motivo necessitano spesso dell’associazione con oppiacei come codeina od ossicodone.

L’acido acetilsalicilico (Aspirina), uno dei più vecchi ed efficaci analgesici non narcotici, è stato abbandonato nella pratica pediatrica per il suo possibile coinvolgimento nella sindrome di Reye, per l’interferenza sulla funzione piastrinica e per le proprietà irritanti sulla parete gastrica. Tra i più comunemente usati l’acetaminofene, più noto come paracetamolo (N-acetil-procedure-aminofenolo) (Tachipirina, Efferalgan). Ben tollerato e privo dei molti effetti collaterali dell’acido acetilsalicilico, ne costituisce una efficace alternativa per gli effetti analgesici ed antipiretici, ma non per quelli anti-infiammatori. La sua azione analgesica sembra essere dovuta, a differenza dell’acido acetilsalicilico, soprattutto all’interferenza con la biosintesi delle postaglandine a livello del sistema nervoso centrale (SNC). E’ stata dimostrata anche una positiva interazione con il fascicolo dorso-laterale discendente (bulbo-spinale) a mediazione serotoninergica: sembra infatti che il paracetamolo (almeno nella forma iniettiva) agisca stimolando tale via discendente e quindi potenzi l’analgesia midollare a livello del corpo posteriore del midollo spinale. Quando somministrato in dosi normali (10-15 mg/Kg, per ospedale o per via rettale, ogni 4 ore), L’acetaminofene presenta scarsi effetti collaterali. In dose singola e unica, per via rettale, può essere usato anche alla posologia di 40 mg/Kg (Berde, 1989).

Per via e.v. o i.m. può essere utilizzato il ketoprofene alla posologia di 0,5-2 mg/Kg. Recentemente è stato dimostrato (Kokki et al, 1999) che la somministrazione intraoperatoria di ketoprofen a 1 mg/Kg e.v. in bolo seguita da un’infusione continua in due ore, sempre di 1 mg/Kg, ha costituito un’ottima strategia di trattamento permettendo, dopo chirurgia correttiva per strabismo, non solo il dimezzamento della posologia degli oppiacei post-operatori, ma anche una drastica riduzione dell’incidenza di vomito(17% vs 41% dei bambini non trattati intraoperatoriamente con ketoprofen). Anche la somministrazione i.m. di 1 mg/Kg di ketoprofen subito dopo l’induzione dell’anestesia generale, sempre in chirurgia oftalmica, determina minori pain scxores postoperatori e richiede una terapia analgesica meno frequente, in paragone ad 1 mg/Kg i.m. di petidina (Alam & Takrouri, 1999).

Oltre 3 anni di età è ammesso l’uso del ketorolac (0,5-0,6 mg/Kg), analgesico di efficacia pressoché sovrapponibile a quella della morfina (0,1 mg/kg). Un recente studio, infatti, condotto da Lieh-Lai et al (1999) su pazienti da 3 a 128 anni ricoverati in Terapia Intensiva ha evidenziato che il ketorolac, alla posologia di 0,6 mg/Kg e.v, fornisce sollievo del dolore da moderato a severo in modo comparabile a quello ottenibile con la morfina, anche se può causare, sorprendentemente, nausea e vomito in una percentuale troppo elevata di casi (41% vs 8%). Inoltre l’uso del ketorolac richiede grande cautela nei pazienti con ridotta funzione renale nei quali la sintesi delle postaglandine endogene renali non deve essere alterata. Va inoltre rammentato che il rischio di aumento del sanguinamento post-operatorio e del sanguinamento gastro-intestinale sono da tenere in debito conto quando si somministrino più dosi di ketorolac.

Di particolare interesse anche la forma iniettabile del paracetamolo (Pro-efferalgan), vero e proprio profarmaco rapidamente trasformato in paracetamolo nel torrente ematico. La posologia, in termini ponderali, è doppia rispetto al paracetamolo.

Se i piccoli pazienti possono essere adeguatamente monitorati (saturimetria periferica continua, frequenza respiratoria), non dev’essere trascurato l’uso degli oppiacei. Ai narcotici ad attività mista agonista-antagonista che agiscono come agonisti o parziali agonisti ad un recettore o come antagonisti ad un altro (pentazocina, butorfanolo, nalorfina, nalbufina, buprenorfina), sono l preferite in età pediatrica i morfinomimetici agonisti ad azione selettiva su m -recettori (morfina, meperidina, metadone, fentanyl). Al pari del d -agonisti, essi producono analgesia, depressione respiratoria, euforia e dipendenza fisica. Al contrario la maggior parte degli agonisti-antagonisti agiscono come agonisti o agonisti parziali ai c - e d -recettori, ma come antagonisti a quelli m -.

Proprio i d -recettori sono responsabili degli effetti psicotomimetici, in particolare disforia e allucinazioni, osservati frequentemente con l’impiego degli agonisti-antagonisti. Per quanto concerne i m -recettori, varie evidenze suggeriscono che la depressione respiratoria e l’analgesia prodotte dai m -antagonisti coinvolgono differenti subtipi recettoriali (m 1 : analgesia sopraspinale; m 2 : analgesia spinale, depressione respiratoria, inibizione della motilità gastrointestinale).

Ora, questi recettori, che possono essere bloccati dal naloxone, cambiano quantitativamente e qualitativamente in modo correlato all’età. A tal proposito è stato sperimentalmente dimostrato che i ratti di 14 giorni sono 40 volte più sensibili all’analgesia morfinica di quelli di 2 giorni; al contrario, in quest’ultimi la morfina deprime maggiormente la frequenza respiratoria rispetto ai ratti più attempati. Questi dati si correlano con le osservazioni cliniche in base alle quali i neonati possono essere particolarmente sensibili agli effetti depressori sul respiro degli oppiacei comunemente impiegati.

Nei neonati la morfina può anche essere responsabile di stati convulsivi. Per tali ragioni è bene evitare la morfina nei primi due mesi di vita. Ad ogni età, comunque, nausea, vomito, ritenzione urinaria, rilascio di istamina, vasodilatazione, sono effetti collaterali relativamente comuni dopo somministrazione di morfina a boli (0.1 mg/Kg) per via parenterale. Dopo bolo endovenoso, la morfina si trova legata per una quota pari a circa il 30% alle proteine dell’adulto, contro solo il 20% nel neonato. L’aumento relativo della morfina libera nel plasma comporta una sua maggiore penetrazione nell’encefalo. Ciò può spiegare in parte l’osservazione di maggiori livelli celebrali di morfina riscontrabili nel neonato e conseguentemente l’incidenza di maggiore depressione respiratoria. Inoltre l’emivita di eliminazione, che negli adulti e nei bambini più grandi è di 3-4 ore, risulta più lunga di oltre due volte nei neonati con meno di una settimana e ancora maggiore nei prematuri. È invece interessante notare che nei lattanti con più di due mesi di età l’emivita di eliminazione e la clearance sono simili ai valori riscontrabili negli adulti.

La meperidina (1mg/Kg) è frequentemente utilizzata in età pediatrica nel postoperatorio, sia per via i.m. che per via e.v.. è più maneggevole della morfina ma ugualmente responsabile di ritenzione urinaria nei bambini non cateterizzati. Può causare tachicardia e produrre sul cuore effetti inotropi negativi. La normeperidina, suo principale metabolita, presenta azione neurotossica e può produrre convulsioni. A posologie modicamente analgesiche (0.25 mg/kg) esercita un’efficace attività antibrivido.

Il fentanyl (1-2 m g/Kg. Ora) è sicuramente l’analgesico oppioide più maneggevole per la somministrazione in perfusione continua, soprattutto per le prime 12/24 ore dopo interventi condotti per via toracotomica e/o laparotomica. La sua principale dote consiste in una grande efficacia accoppiata a relativa brevità dolore’azione, ragion per cui risulta in genere alquanto agevole modulare il tasso dolore’infusione del fentanyl, a seconda delle diverse necessità antalgiche del postoperatorio. Le eventuali alterazioni emodinamiche sono di minima entità. Il fentanyl è altamente solubile nei lipidi e raramente distribuito ai tessuti ad alta perfusione come cervello e cuore. Normalmente l’effetto di una singola dose di fentanyl termina per rapida redistribuzione più che per eliminazione. Tuttavia dopo larghe dosi di fentanyl o comunque dopo somministrazioni multiple, come può avvenire nell’intraoperatorio,vi può essere un prolungamento eccessivo degli effetti depressivi a causa dell’accumulo dell’oppiaceo nel tessuto adiposo. Ciò è particolarmente evidente nel neonato nel quale l’eliminazione può essere ulteriormente prolungata da un anormale o diminuito flusso ematico epatico mediante shunt attraverso il dotto venoso di Aranzio ancora pervio.

La farmacocinetica del fentanyl differisce nelle varie età. La clearance totale nei bambini tra 3 e 12 mesi è maggiore (18.1± 1.4ml/Kg.min) rispetto a quella dei bambini con più di un anno (11.5± 4.2) e a quella degli adulti (10.0± 1.7); al contrario, l’emivita di eliminazione è più lunga (rispettivamente 233± 137,244± 79 e 129± 42 min). il fatto che la clearance del fentanyl nei bambini più piccoli sia elevata, comporta minori concentrazioni plasmatiche a parità di condizioni e di conseguenza una maggiore tolleranza agli effetti depressivi sul respiro dopo singole somministrazioni. La minima concentrazione plasmatica efficace nel postoperatorio può essere indicata in circa 1ng/ml (Lehmann 1993).

Nei neonati può più vantaggiosamente essere utilizzato l’alfentanil che è meglio metabolizzato del fentanyl.

La minima concentrazione plasmatica efficace per l’alfentanil è intorno a 10 ng/ml.

PCA

Questa metodica si basa sull’autosomministrazione di boli di piccole dosi di analgesico prevalentemente, ma non esclusivamente, per via e.v. o sottocutanea, mediante l’utilizzazione di apposite pompe computerizzate programmate dall’operatore (Harmer 1985), il quale prefissa: a) l’entità posologica del primo bolo di carico (loading dose); b) quella dei successivi di mantenimento; c) il numero massimo di autosomministrazioni in un determinato intervallo di tempo, in modo da evitare pericolosi sovraddosaggi.

Lo scopo principale consiste nell’abolire la necessità della richiesta dell’analgesico, la preparazione e la somministrazione del farmaco (in genere per via i.m.), tutte fasi sequenziali che causano ritardo nel sollievo del dolore. Naturalmente si deve poi computare il tempo necessario al raggiungimento dei livelli ematici e quindi tessutali correlati all’interazione farmaco-recettore. A ciò si aggiunga il fatto che la classica somministrazione per via i.m. richiede una dose tale di analgesico da superare spesso la cosiddetta "finestra terapeutica", vale a dire il limite oltre il quale accanto all’azione analgesica si manifestano gli effetti collaterali più spiacevoli. D’altra parte, dopo un po’ di tempo, le concentrazioni ematiche dell’analgesico scendono sotto il limite inferiore della suddetta finestra, condizionando la ricomparsa del dolore. In pratica i livelli ematici dell’analgesico subiscono inevitabilmente periodiche variazioni in eccesso e in difetto rispetto alla finestra terapeutica del paziente.

Dunque, la metodica PCA, basandosi sull’autosomministrazione relativamente frequente di piccole dosi, determina minori oscillazioni delle concentrazioni ematiche dell’analgesico, evitandone i picchi, connessi agli effetti collaterali, e riducendo al minimo il tempo di scopertura antalgica. Poiché è richiesta al paziente perfetta comprensione della metodica, la PCA può essere impiegata solo a partire dall’età scolare. Un ulteriore limite, di natura intrinseca, della PCA si evidenzia nelle ore notturne o comunque dedicate al riposo, allorché il paziente è costretto a interrompere più volte il sonno a causa della ricomparsa del dolore. In tal caso un buon compromesso è rappresentato dall’adozione della PCA nelle ore diurne e dalla somministrazione continua endovenosa in quelle notturne. Poiché i dispositivi correnti per la PCA conservano la memoria del numero di boli erogati e quindi la posologia totale utilizzata, all’operatore risulta agevole programmare il tasso di infusione continua per la notte sulla base dei consumi diurni in regime di PCA.

Tra gli analgesici non narcotici, il più convincente sembra essere il Ketorolac; tra i narcotici è la morfina la più correntemente e felicemente usata (0.25-0.5 mg/bolo o 20m g/Kg.bolo, con un massimo di 5 boli/ora e con un intervallo di lock-out tra ogni bolo di 6-8 min.).

Analgesia loco-regionale

Consiste nella somministrazione, attraverso appositi cateteri perimidollari, di soluzioni di snslgesico locale e/o di oppiacei. I cateteri, solitamente utilizzati intraoperatorialmente per fornire anestesia loco-regonale e pertanto posizionati prima dell’intervento chirurgico, possono essere inseriti a livello epidurale (lombare o caudale) o a livello subaracnoideo. Nel post-operatorio possono essere ulteriormente sfruttati per assicurare un’analgesia loco-regionale di elevata qualità per alcuni giorni.

Se si preferisce somministrare solo anestetici locali, le concentrazioni sufficienti a fornire buona analgesia senza determinare debolezza muscolare o fastidiose parestesie, sono all’incirca due volte e mezzo minori rispetto a quelle di norma usate nell’intraoperatorio per assicurare anestesia bupivacaina (analgesico amidico) 0.25%, nel post-operatorio è sufficiente servirsi di una concentrazione intorno allo 0.1%.

Ci sono due tipi principali di anestetici locali, gli esterei e gli amidici . i primi sono metabolizzati dalle colinesterasi plasmatiche. I neonati e i lattanti fino a 6 mesi di età hanno meno della metà dell’attività colinesterasica plasmatica dell’adulto. La clearance degli anestetici locali esterei può dunque risultare alquanto ridotta e i loro effetti conseguentemente prolungati. Gli amidici, d’altra parte, sono metabolizzati nel fegato e legati dalle proteine plasmatiche. I neonati e lattanti con meno di 3 mesi presentano a livello epatico sia un ridotto flusso ematico, sia immaturità dei sistemi microsomiali detossificanti. Di conseguenza, una maggiore frazione di anestetico locale, non metabolizzata, rimane attiva nel plasma ed è escreta nelle urine immodificata. Inoltre, neonati e lattanti possono essere ad incrementato rischio di tossicità da anestetici amidici anche in considerazione del fatto che i più bassi livelli di albumina e di a 1 glicoproteina acida condizionano un aumento della quota libera plasmatica di anestetico locale, con conseguente rischio potenziale di tossicità. Fortunatamente il maggior volume di distribuzione allo steady state osservato nel neonato, per questa ed altre categorie di farmaci, conferisce una certa protezione clinica abbassando, a parità di condizioni, i livelli plasmatici degli anestetici locali amidici.

Un cenno a parte merita la prilocaina, il cui metabolismo comporta lo sviluppo di metaemoglobinemia. Poiché i prematuri e i neonati a termine hanno livelli ridotti di metaemoglobinemia reduttasi, sono più suscettibili alla formazione di metaemoglobinemia, considerato anche che l’emoglobina fetale si ossida più facilmente in paragone a quella dell’adulto. Per tali motivi la prilocaina è da prescriversi per l’uso nel neonato, a meno che la sua presenza in crema anestetiche (EMLA o eutectic mixtureof local anesthetics) non sia attentamente valutata in termini posologici.

La crema EMLA è un’emulsione per uso topico, composta in parti uguali di lidocaina e prilocaina, in grado di produrre completa anestesia a seguito di idonea applicazione su mucose e cute. Per ottenere migliori risultati anestetici la crema deve essere applicata in quantità sufficienti e coperta con una medicazione occlusiva per almeno 60’ prima di essere rimossa. Il suo uso è principalmente riservato alla venipuntura alla puntura della cute del dorso per l’effettuazione di anestesie perimidollari e al controllo del dolore dopo circoncisione.

Quanto agli effetti collaterali intrinseci degli anestetici locali una tossicità sistemica a carico del sistema cardio vascolare e del SNC è stata raramente osservata in età pediatrica. In particolare, solo episodicamente sono state notate convulsioni, probabilmente perché la soglia di eccitabilità è di norma aumentata dal concomitante uso di sedativi, in particolare di benzodiazepine. La cardiotossicità dovuta alla bupivacaina è la più preoccupante complicazione della somministrazione di un anestetico locale. Le disritmie ventricolari, essenzialmente secondarie al rallentamento del potenziale d’azione nelle fibre di Purkinje, possono essere refrattarie al trattamento anche se ci sono segnalazioni di un uso della fenitoina coronato da successo.

Sono soprattutto i neonati ad essere ad aumentato rischio di tossicità da bupivacaina, sia per il ridotto flusso ematico al fegato, sia per immaturità delle vie metaboliche, sia ancora, come si è detto, per i più bassi livelli plasmatici di albumina e di a 1 glicoproteina acida. Tuttavia, la maggior sensibilità dei pazienti in età pediatrica al blocco anestetico permette l’impiego di concentrazioni di anestetico locale all’incirca dimezzate rispetto all’adulto. In generale, per ogni intervallo di 4 ore il dosaggio massimo di bupivacaina nei bambini è di 3mg/Kg, per la lidoicaina e la mepivacaina di 6mg/Kg. La recente introduzione in commercio dell’isomero levogiro della l-pro-pilvacaina (Naropina) ha ridotto l’impiego della bupivacaina, in quanto la prima è provvista di tossicità all’incirca dimezzata rispetto alla seconda: pertanto la Naropina è divenuto l’anestetico locale di prima scelta in campo pediatrico ed ostetrico. In generale, il rapporto di equipotenza l-provilvacaina/bupivacaina è all’incirca 1.5:1, ragion per cui lo 0.65% di l-provilvacaina corrisponde a 0.5% di bupivacaina. Inoltre, a parità di potenza, si nota minore blocco motorio con la l-pro-pilvacaina.

Negli adulti uno degli effetti collaterali più frequenti nelle anestesie perimidollari con anestetici locali riguarda l’ipotensione arteriosa dovuta al blocco del normale tono del simpatico toraco-lombare. Viceversa nei bambini fino a circa 10 anni l’ipotensione è difficilmente osservabile, sia per il minore sviluppo del letto vascolare agli arti inferiori rispetto al tronco, sia per la minore tendenza all’attivazione del sistema parasimpatico cardiaco. In ogni caso, le concentrazioni e i volumi di anestetico locale impiegati nel postoperatorio per via perimidollare escludono ogni possibilità di ipotensione, almeno nella gestione corretta della terapia antalgica.

Quanto agli analgesici oppioidi, la presenza di elevate concentrazioni di recettori per gli oppiacei nel midollo spinale rende ragione delle motivazioni farmacologiche per una loro razionale utilizzazione per via perimidollare nel controllo del dolore, sia acuto che cronico. Soprattutto conveniente risulta in genere l’iniezione perimidollare di oppiacei poco lipofilici, come la morfina, che per somministrazione sistemica soggiacciono ad un’importante limitazione del loro passaggio attraverso la barriera emato-cerebrale e per tale motivo richiedono il ricorso ad una posologia maggiore per raggiungere gli oppiaceorecettori cerebrali in concentrazioni sufficienti. Al contrario la somministrazione epidurale e, più ancora, quella subaracnoidea, evitano la barriera emato-cerebrale permettendo agli oppiacei di raggiungere direttamente i loro specifici recettori midollari attraverso quella che si potrebbe definire la "porta posteriore". È evidente, così, che oppiacei come la morfina, somministrati per via epidurale in dosi pari a circa un quinto e per via subaracnoidea, possano raggiungere livelli liquorali paramidollari che sono dell’ordine di alcune migliaia di volte rispetto a quanto di norma avviene dopo iniezione per via sistemica. Se si tiene presente il consumo postoperatorio di fentanyl mediante impiego della PCA per via endovenosa o per via epidurale (EPI), si può constatare come il rapporto di equipotenza EPI/IV sia circa, poiché dopo iniezione epidurale di 1/3 della dose necessaria per via venosa si ottiene un’analgesia pressoché sovrapponibile (Chrubasik 1988). È anche interessante rilevare come nel controllo del dolore post-operatorio il rappoorto di potenza d’azione di fentanyl/morfina sia intorno a 30 per via endovenosa, ma scenda a 13 per via epidurale, suggerendo così la relativa maggiore convenienza ad usare la via epidurale nel caso della morfina, pur riconoscendo indubbi vantaggi anche alla somministrazione epidurale del fentanyl.

Varie esperienze cliniche indicano che le dosi di oppiacei normalmente utilizzate nell’analgesia epidurale e subaracnoidea saturano completamente tutti gli oppiaceorecetori presenti per un lungo tratto del midollo, ragion per cui un aumento della dose, una volta raggiunto l’effetto soglia, può solo determinare aumento degli effetti sistemici dovuti all’assorbimento ematico o comportare maggiori effetti collaterali. Va tuttavia rammentato che gli oppiacei più idrosolubili (o, se vogliamo, meno lipofilici), come la morfina, una volta raggiunto il liquor, o perché iniettati direttamene o perché ivi giunti dopo aver attraversato dura e aracnoide, devono passare dalla fase acquosa del liquor nella fase lipidica del soggiacente nevrasse per raggiungere i recettori-messaggio: il tempo necessario per raggiungere quest’ultimo passaggio è strettamente dipendente dalla solubilità dei lipidi dell’oppiaceo in oggetto. Nel caso specifico della morfina, è necessario attendere almeno 30-45’ prima di osservare tangibili effeti analgesici.di ciò si deve tener conto prima di giudicare erroneamente insufficiente l’effetto analgesico di una somministrazione perimidollare di sola morfina,. Al contrario il fentanyl, alquanto liposolubile, accoppia a breve latenza d’azione, e a durata limitata, un’elevata potenza d’azione, dovuta alla sua alta affinità per gli oppiaceo-recettori. Inoltre il fentanyl produce una analgesia più strettamente segmentaria rispetto alla morfina.

Se fentanyl e morfina sono opportunamente associati insieme e somministrati per via epidurale, è possibile fornire una analgesia caratterizzata sia da breve latenza di azione che da durata prolungata.

Il principale vantaggio dell’analgesia midollare da oppiacei consiste nel fatto che essa non comporta alterazioni autonomiche o compromissione della funzione neuromuscolare, né modificazioni tattili e propriocettive.

In caso di catetere epidurale, sia caudale che epidurale lombare, i migliori risultati nel controllo del dolore post-operatorio in età pediatrica si conseguono con la somministrazione in perfusione continua di una miscela analgesica contenente anestetico locale e fentanyl. L’associazione tra un oppiaceo e un anestetico locale offre notevoli vantaggi in considerazione del fatto che tra le due categorie di farmaci esiste un potente sinergismo. In tal modo possono conseguire ottimali effetti analgesici con limitatissime probabilità d’incidenza di effetti collaterali. Infatti l’aggiunta dell’oppiaceo permette di rendere efficaci anche concentrazioni basse di anestetico locale, così come l’anestetico locale rafforza la potenza analgesica del solo oppioide che, soprattutto nel primo postoperatorio, può non assicurare una perfetta efficacia. L’autore utilizza una soluzione così preparata: bupivacaina 0.5% 10 ml + fentanyl 100 m g (2 ml) + 38 ml di soluzione fisiologica, cosicché la concentrazione finale di bupivacaina è dello 0.1% e quella del fentanyl di 2 m g/ml. Dall’età neonatale a quella adolescenziale , la velocità di somministrazione si basa sul fabbisogno di fentanyl, considerando una posologia media compresa tra 0.2 e 0.4 m g/Kg.ora. Ad esempio se un bambino pesa 10 Kg e si ritiene di utilizzare un tasso intermedio di 0.3 m g/Kg.ora, la dose oraria sarà di 3 m g/ora, pari a 1.5 ml/ora della soluzione analgesica più sopra indicata. Per un bambino operato in mattinata, tale regime può essere indicativamente mantenuto fino a tarda notte, dopodichè, in assenza di segni di dolore, si può ridurre ogni 3-4 ore il tasso di infusione del 10-20% alla volta. In caso di ricomparsa del dolore, il tasso di infusione è riportato al valore precedente, o, in alternativa, si può iniettare una dose bolo di supplemento pari alla posologia erogata in un’ora. Attualmente la bupivacaina può essere vantaggiosamente sostituita dalla Naropina (10ml allo 0.75% = 75 mg) nella miscela testè ricordata anestetico locale/fentanyl.

Se invece si dispone, in casi selezionati, di catetere spinale, la mepivacaina all’1% in ragione di frazioni di ml/ora (0.2-0.5 ml/ora) può produrre analgesia assai efficace senza debolezza muscolare e fastidiose parestesie. Un modo razionale per impostare l’infusione continua consiste nel somministrare inizialmente una dose-carico di mepivacaina all’1% in base al volume di anestetico utilizzato nell’intraoperatorio (indipendentemente dal tipo di anestetico amidico impiegato per l’anestesia chirurgica). Se il bolo iniziale da buoni risultati antalgici senza effetti collaterali (parstesie, ipotensione, debolezza muscolare), si potrà usare tale volume come tasso orario di mantenimento.

E’ bene evitare la somministrazione di lidocaina per via intratecale a causa della sua relativamente elevata neurotossicità intrinseca soprattutto nell’età infantile. La scelta della mepivacaina, per l’infusione continua spinale nel postoperatorio, è giustificata dalla maggiore maneggevolezza rispetto alla bupivacaina, ad azione più prolungata.

Per via subaracnoidea gli oppiacei trovano sempre meno estimatori, almeno nel postoperatorio, per l’alta incidenza di prurito, ritenzione urinaria (effetto collaterale alquanto spiacevole in assenza di cataterizzazione urinaria in atto), vomito e la possibilità di depressione respiratoria tardiva (morfina). E’ stato infatti dimostrato che dopo somministrazione intratecale di morfina in ragione di 0.02 mg/Kg in bambini da 3 mesi a 15 anni si osserva depressione della risposta ventilatoria all’anidride carbonica fino a 18 ore e che la maggiore depressione si verifica dopo 6 ore ed era correlata ai più elevati livelli liquorali di morfina. E’ imperativo che i piccoli pazienti siano ricoverati in una Terapia Intensiva e attentamente monitorati. Se ben gestita, l’analgesia per via subaracnoidea è la più completa forma di terapia antalgica, anche se impegnativa e gravata da costi elevati.

2. Trauma

Traumi chiusi o aperti, incluse le ferite lacero-contuse, costituiscono una causa frequente di dolore acuto nel bambino. Le evenienze più gravi e dolorose sono provocate da incidenti stradali, cadute accidentali, ferite alla testa, morsi di animali e lesioni da attività ludiche e/o sportive. Ancora scarsa attenzione è riservata al sollievo del dolore del piccolo paziente al primo soccorso, durante il trasporto, l’accettazione in ospedale e nel corso di indagini diagnostiche e strumentali effettuate prima della terapia medica, ortopedica o chirurgica. Andrebbe rammentato che una corretta prescrizione analgesica di norma non interferisce con l’iter diagnostico. Il dolore da traumi minore può essere facilmente controllato con l’uso del paracetamolo, dell’ibuprofrn, del ketoprofen o della codeina. La somministrazione dell’analgesico per via orale non pregiudica la sicurezza dell’eventuale successiva anestesia generale.

In caso di trauma grave, la presenza di un anestesista esperto sia durante il primo soccorso che durante il trasporto, dovrebbe poter assicurare, oltre alle più adeguate manovre rianimatorie, anche l’effettuazione di anestesie loco-regionali antalgiche. Tuttavia anche ferite o traumi giudicati di modesta o scarsa gravità, ma ugualmente dolorosi, dovrebbero essere trattati, se anatomicamente e tecnicamente possibile, con analgesia loco-regionale, di norma facile da eseguire, assai efficace e più sicura della somministrazione sistemica di analgesici. Di fronte, ad esempio, ad una brutta ferita di ginocchio, l’effettuazine già nell’unità mobile di soccorso di un blocco del nervo femorale con anestetico locale permette un’eccellente terapia natlgica prima e un’ottima anestesia chirurgica in pronto soccorso per la toilette, la sutura e la medicazione delle ferite profonde e superficiali. Il blocco del n. femorale può essere usato con successo anche per ottenere analgesia in caso di frattura dolore del femore (2.5 mg/Kg di bupivacaina allo 0.25%).

Una preziosa variante del blocco classico del nervo femorale è costituita dal così detto blocco "3 in 1" secondo Winnie, che consente, con un’unica iniezione in corrispondenza del n. femorale proprio sotto l’inguine, di bloccare anche il nervo otturatorio e il nervo femoro-cutaneo laterale. E’ sufficiente esercitare una digitopressione costante e continua per qualche minuto, subito caudalmente alla sede dell’iniezione, per facilitare la risalita craniale dell’analgesico lungo la fascia dell’ileopsoas verso il plesso lombare.

Per lenire il dolore da fratture multiple toraciche, chirurgiche o non chirurgiche, i migliori risultati antalgici si conseguono con l’applicazione di una analgesia epidurale toracica, che consente al bambino di respirare meglio e di ottenere una qualità superiore di analgesia. Epidurali lombari sono ugualmente vantaggiose nel controllo del dolore da fratture agli arti inferiori, utilizzate prima per una terapia antalgica precoce pre-intervento, successivamente per anestesia chirurgica intraoperatoria e nel primo post-operatorio nuovamente come analgesia, coprendo pertanto tutto il perioperatorio. Nelle fratture al polso o al’arto superiore, il blocco anestetico dei singoli nervi (radiale, mediano e ulnare), o quello del plesso brachiale in toto, possono alleviare efficacemente il dolore fin dai primi minuti del soccorso al piccolo infortunato, facilitando le manovre ortopediche in trazione e di riallineamento osseo. In caso di impossibilità di praticare blocchi nervosi anestetici, dosi analgesiche di ketamina (anestetico generale endovenoso) possono essere impiegate per controllare il dolore durante i momenti più acuti.

3. Ustioni

Nei bambini sono causate più frequentemente da immersione o contatto con oggetti o liquidi eccessivamente caldi, da elettricità, fiamme o agenti chimici. Il dolore è un’importante problema in questi casi, perché è continuo e aumenta in seguito in conseguenza dello sbriciolamento della cicatrice, dell’idroterapia o del rinnovo della fasciatura. Anche qui, rispetto agli adulti, ai bambini vengono lesinati maggiormente gli analgesici più efficaci, anche se si tenta di utilizzare la distrazione, la rassicurazione e qualsiasi mezzo di tipo psicologico per ridurre la risposta comportamentale al dolore. Il trattamento del dolore da ustione è tra le priorità assolute dell’approccio terapeutico, che comprende necessariamente, nelle ustioni estese (oltre il 15% della superficie corporea) di secondo grado e in quelle di terzo, anche il reintegro della massa circolante, la prevenzione dell’infezione locale e della sepsi oltre al trattamento topico appropriato. In presenza di dolore moderato, gli analgesici di prima scelta comprendono il paracetamolo (10 mg/Kg), il ketoprofen (2 mg/Kg), con aggiunta eventuale di fenobarbitone (2 mg/Kg), oppure la codeina (3 mg/Kg. die in 6 somministrazioni) spesso associata ad analgesici non narcotici in varie preparazioni commerciali. In presenza di dolore intenso, gli oppiacei non vanno risparmiati. La morfina cloridrato, meglio se somministrata per via endovenosa, può essere impiegata inizialmente ad un dosaggio dell’ordine di 0.1-0.2 mg/Kg.dose ogni 4-6 ore; il fentanyl a 2-4 m g/Kg.dose come bolo iniziale per via e.v. e successivamente, sotto stretto monitoraggio pulsiosimmetrico, in perfusione continua a 1-2 m g/Kg.ora.

Se la morfina, il fentanyl, e le varie associazioni tra morfinici e FANS sono di impiego nell’urgenza, sia a scopo sintomatico, sia per contrastare lo shock neurogenico, altre strategie vanno programmate nella fase di stato quando il dolore è soprattutto esacerbato dal rinnovo delle medicazioni. In tali circostanze, si possono segure principalmente tre vie: 1) uso di anestetici endovenosi di sostegno agli oppiacei per produrre uno stato di semi-incoscienza o di completa incoscienza; 2) somministrazione per via orale o per via rettale di ketamina; 3) utilizzo di un catetere peridurale lombare o toraco-lombare, a condizione che la zona ustionata abbia risparmiato la cute del dorso e si limiti alle zone metameriche di pertinenza delle radici coinvolte dal blocco nervoso anestetico perimidollare.

1. Anestetici endovenosi. Il più utile è sicuramente il propofol, anestetico di tipo alchilfenolico solubilizzato in emulsione lipidica (Diprivan). Somministrato lentamente per via endovenosa fino a 3 mg/Kg.bolo nell’induzione all’ipnosi del bambino (e a boli subentranti al bisogno di circa 1 mg/Kg per il mantenimento), il profol consente, in presenza di un’analgesia oppioide in atto, di evitare al piccolo paziente qualsiasi sofferenza, sia di tipo fisico che psicologico, procurando un vero e proprio stato di narcosi. Il gran vantaggio del propofol, rispetto ai classici tiobarbiturici come il tiopentone sodico, consiste nella limitatissima tendenza all’accumulo anche dopo varie somministrazioni, permettendo il recupero dello stato di coscienza in tempi molto brevi, indipendentemente dal numero di dosi iniettate. Al contrario, il tiopentone, dopo le prime due dosi, prolunga in maniera eccessiva il risveglio a causa dell’elevato accumulo farmacologico. Altri vantaggi del propofol riguardano l’elevata potenza anti-emetica e l’azione calcio-antagonista.

2. Ketamina. Vero e proprio anestetico sui generis, la ketamina è un derivato della fenciclidina, denominata "polvere da strada" e dotata contemporaneamente di caratteristiche analgesiche e allucinosiche. La ketamina, che induce a dosi piene, ossia anestetiche, un’anestesia di tipo dissociativo e simile a uno stato di catalessi, sembra non conoscere limitazioni quanto a vie di somministrazione, potendosi dare per via endovenosa, intramuscolare, intranasale, orale, rettale.ha azione stimolante sul sistema simpatico e ottime proprietà broncodilatatrici. Il principale limite deriva dalla possibilità, fortunatamente meno frequente nel bambino, di provocare fenomeni di tipo pseudoallucinosico alla riemersione dall’anestesia.

Nel trattamento del dolore provocato dalle manovre chirurgiche di toilette dell’ustione e dal rinnovo delle medicazioni, la ketamina può essere preventivamente somministrata al letto del bambino circa 45-60 minuti prima per ospedale alla posologia di 10 mg/Kg, mescolata alla bevanda preferita, possibilmente dolce per mascherare il suo gusto amaro e sgradevole. La somministrazione orale della ketamina a tale dosaggio rende il bambino apatico, indifferente alle manovre che si compiono su di lui in completa analgesia. In alternativa, sempre a 10 mg/Kg, la ketamina può essere somministrata un’ora prima per via rettale. Nel caso in cui si rendono necessari, in sala operatoria, procedimenti chirurgici una maggiore analgesia, la ketamina può essere iniettata lentamente per via e.v. a 2-3 mg/Kg all’induzione e a boli refratti di 1 mg/Kg nel mantenimento circa ogni 5-&è minuti. In alternativa, come prima dose, può essere utilizzata la via intramuscolare ad una posologia di 7-10 mg/Kg.

3. Epidurale. Nel bambino preferibilmente in età scolare e senza ustioni al dorso, può essere posizionato un catetere epidurale lombare (o, in casi particolari, a livello taracico) attraverso cui somministrare o piccoli dosi di morfina per lenire il dolore "di base", o anestetici locali per controllare quello più intenso provocato iatrogenicamente durante le medicazioni. Il principale vantaggio dell’analgesia epidurale deriva dal fatto che il bambino, se lo desidera,può rimanere cosciente in stato di completa analgesia e continuare tranquillamente a guardare la televisione o ad attendere ai suoi giochi.

In casi selezionati e nei bambini più grandicelli, anche la PCA con morfina e ketorolac può fornire un buon sollievo del dolore durante la fase di stato ed il suo uso non si discosta significativamente da quanto avviene per il post-operatorio chirurgico.

BIBLIOGRAFIA

 


La preemptive analgesia in età pediatrica

Antonio Chiaretti

Sezione autonoma di Terapia Intensiva Pediatrica

Policlinic "A. Gemelli", Roma

La preemptive analgesia sta assumendo, soprattutto negli ultimi anni, un ruolo imortante nel management del dolore acuto postoperatorio. Il concetto di preemptive analgesia presuppone la somministrazione di un analgesico prima che si manifesti lo stimolo doloroso, in modo da prevenire l’attivazione dei recettori e ridurre l’entità del dolore postoperatorio (1). Tale concetto, comunque, non è universalmente accettato, in quanto gli studi eseguiti non hanno evidenziato dei risultati uniformi. Difatti, accanto a lavori che hanno dimostrato una riduzione del dolore nelle prime 24 ore postoperatorie, altri invece non hanno evidenziato benefici con l’utilizzo di questa tecnica. Ciò, in conseguenza sia della diversità dei campioni che dei farmaci utilizzati. Se inoltre, esistono numerosi lavori sulla preemptive analgesia negli adulti, pochi sono invece gli studi in età pediatrica (2).

Del resto, ancora oggi si è restii, sia da parte dei medici che dei genitori a somministrare farmaci analgesici ai bambini fino a quando il dolore non sia particolarmente manifesto, ritardando in tal modo una corretta terapia analgesica.

Da studi recenti della letteratura infatti circa il 18% dei genitori, malgrado il bambino manifesti una sintomatologia dolorosa molto evidente, non somministra un farmaco analgesico al proprio figlio (3). Per tale motivo assume un’importanza fondamentale poter prevenire la comparsa del dolore già nelle fasi iniziali di un intervento chirurgico o, comunque, di un atto medico che provochi dolore (es. puntura lombare, prelievo venoso, biopsia midollare ecc.). esistono diverse tecniche e procedure per attuare la preemptive analgesia in età pediatrica. Con tale metodica infatti si cerca di bloccare sia la sensibilizzazione dei recettori periferici del dolore che quella centrale (4). L’attivazione dei recettori periferici dipende dalla liberazione di mediatori chimici e cellulari entro il tessuto danneggiato e/o entro il circolo ematico e, per solito, segue rapidamente il momento dell’injury. In conseguenza di questo processo i farmaci utilizzati per bloccare tale tipo di sensibilizzazione sono rappresentati dagli antiinfiammatori non steroidei (FANS). Un esempio tipico di preemptive analgesia periferica è rappresentato dalla utilizzazione dell’EMLA, prima di eseguire un prelievo arterioso od una puntura lombare ai bambini oncologici.

La sesibilizzazione centrale dipende, invece, dalla amplificazione del segnale algogeno nel sistema nervoso centrale, particolarmente a livello del midollo spinale. Tale segnale, trasportato dalla fibre C, coinvolge particolari recettori per il glutammato (i cosiddetti NMDA receptors, n-methyl dolore-aspartate) che, in futuro potrebbero rappresentare un potenziale terget per l’utilizzo di nuovo farmaci analgesici (6). Le tecniche di preemptive analgesia, quindi possono agire a diversi livelli, interferendo con i recettori per il dolore con farmaci e metodiche diverse. Una delle più comuni è rappresentata dalla anestesia regionale, o da infiltrazioni locali, per tutta la durata della procedura chirurgica, in modo da raggiungere una efficace analgesia intre e postoperatoria. Questo tipo di preemptive analgesia è in grado di ridurre la quantità di farmaco analgesico utilizzato e di determinare un’immediata, e spesso completa, analgesia postoperatoria. Questa metodica inoltre è accompagnata dalla PCA 4Parent or Patient Controlled Analgesia). La PCA consiste nel somministrare, con delle pompo da infusione particolari, dosi supplementari di un farmaco analgesicoa richiesta per rafforzare l’azione analgesica iniziale e rendere più efficace la terapia antidolorifica. La infusione supplementare di un analgesico può essere eseguita o dai genitori del bambino (Parents) o dal bambino stesso (Patient) o, nel caso, anche da parte delle infermiere (Nurse Controlled Analgesia). Attualmente le nuove metodiche di preemptive analgesia si basano sulla somministrazione di farmaci analgesici, per solito oppioidi, durante tutta la fase dell’intervento chirurgico (5). I farmaci più comunemente utilizzati, per realizzare questo tipo di analgesia preventiva, sono rappresentati dalla morfina e dai suoi più recenti derivati, quali il fentanyl, il remifentanyl ed il sufentanyl. La nostra esperienza si è basata sulla somministrazione di due farmaci oppioidi (fentanyl e tramadolo) a 42 bambini, sottoposti ad interventi di neurochirurgia maggiore. I due farmaci sono stati somministrati, alla dose rispettivamente di 2/g /h e di 0.5 mg/kg/h, per tutta la durata dell’intervento chirurgico. Alla fine dell’intervento, al momento dell’estubazione dei bambini, si interrompeva anche l’infusione dei farmaci analgesici. Il monitoraggio postoperatorio ha evidenziato un buon controllo della sintomatologia dolorosa, tanto che due soli pazienti, sui 42 studiati, hanno necessitato di ulteriori dosi di farmaco analgesico nelle 24 ore successive (2).

In conclusione, la preemptive analgesia può rappresentae una metodica valida ed efficace per il controllo del dolore in età pediatrica. Questa metodica, però deve essere accompagnata da tutta una serie di interventi, quali l’educazione dei genitori e degli stessi medici, l’utilizzi della PCA ed, eventualmente, di nuove e più recenti tecniche per un controllo sempre più efficace del dolore in età pediatrica.

 

REFERENCES


 

L’ospedale nel vissuto del bambino

Maria Vittoria Carbonara

Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Salerno

Alcuni anni fa, nel reparto di ortopedia di un ospedale, assistevo mio figlio diciottenne che aveva avuto un incidente con la moto. Una sera, girando con lui per il reparto, scoprimmo che, fra i pazienti adulti era stato ricoverato anche un bambino. Poteva avere 3 o 4 anni; stringeva nei pugni chiusi dei pezzetti da costruzione ma non ci giocava. Sembrava molto triste: penso che si sentisse smarrito.

In quell’ospedale, come credo in nessun altro all’epoca, non esisteva alcun posto attrezzato "a misura di bambino" né si attuava alcun progetto mirato ad alleviare il dolore fisico e psicologico di chi, come appunto un bambino, si trova a vivere una esperienza complessa e difficile senza aver ancora maturato gli strumenti cognitivi per poterla considerare un episodio transitorio; né quelli emozionali per poterla considerare una fatalità di cui non ha colpa alcuna.

Per quanto, infatti, la malattia, in genere, sia un evento abbastanza normale nella vita di ciascun bambino, quello dell’ospedalizzazione, almeno per la prima volta che accade, rappresenta un evento eccezionale, di natura del tutto particolare: a qualsiasi età ciò avvenga, il bambino va aiutato a poter integrare questa singolare esperienza con tutte le altre esperienze del suo vissuto. È cioè importante che egli riesca a elaborarla sul piano cognitivo, a riconoscerla come propria e ad accettarla, anche in ciò che ha di doloroso.

L’importanza di tale integrazione risiede nel rischio che il vissuto resti sepolto nell’inconscio come un punto oscuro, una esperienza negata, causando un trauma, ossia una interruzione che potrà modificare il naturale corso del suo sviluppo psicologico ed apportare problemi che potreanno complicargli il processo di personale costruzione del Sé (rogers 1961).

Da allora ho molto riflettuto su questo problema e in più occasioni mi sono chiesta quale contributo la psicologia dello sviluppo possa dare alla realizzazione di progetti operativi che vengano incontro ai bisogni del bambino; bisogni che si presentano in maniera diversa, a seconda del livello di età che il bambino attraversa (Carbonara 1989;1993). Ultimamente, un lavoro di tesi di laurea che ho seguito all’Università ha fatto il punto sulle molteplici iniziative che, appunto grazie alla ricerca scientifica in psicologia come in altre scienze "umane", si stanno realizzando nella realtà ospedaliera pediatrica odierna (Pozella 1999).

E qui si potrebbero ricordare le molteplici e mirate proposte di allestimento e arredo degli spazi dei reparti pediatrici, nonché le svariate e preziose iniziative relative alla clown-therapy, alla drammatizzazione, alla musicoterapia, ecc., da svolgere all’interno degli stessi spazi.

Ma, tornando al bambino del reparto ortopedico che si stringeva fra le mani i suoi giochini: come fare in modo che mai più un bambino nelle sue condizioni si senta smarrito; come fare in modo che proprio da semplici oggetti come quelli, possa trarre la soluzione per uscire dal suo dolore?

E inoltre: in che modo un bambino così piccolo va aiutato a capire? Con quale linguaggio si può accedere alla sua comprensione perché riesca a sistemare la complessa esperienza della permanenza in ospedale fra gli svariati altri suoi vissuti di più facile comprensione? Esperienza complessa perché costruita da fasi successive, ciascuna delle quali richiede adattamenti specifici: sia durante la fase che precede l’ingresso in ospedale, che durante quella di permanenza e quella di rientro a casa, il bambino va aiutato a capire che cosa gli sta per accadere, che cosa gli sta accadendo e, infine, che cosa gli è accaduto (Bettelheim 1987).

Il bambino ricoverato in ospedale, al pari di qualsiasi altro bambino non ricoverato, ha tutta una serie di bisogni di natura psicologica da soddisfare, i quali variano in funzione della sua età.

Dolore’altra parte, non è solo l’eventuale esperienza dell’ospedale l’unica possibile fonte di ansietà nei bambini: in ospedale come a casa, in scuola come per strada, la vita del bambino è costellata di episodi che egli vive con ansietà perché non riesce a capire. A causa della sua dipendenza dalle figure adulte, molte delle esperienze che il bambino vive vengono in realtà da lui solo subite e risulterebbero schiaccianti per la sua persona, se egli non possedesse quella naturale valvola di sfogo che è la capacità di giocare in modo simbolico. Ed è proprio con il linguaggio del gioco che lo si può aiutare a capire.

Il gioco simbolico è un’attività a livello immaginativo che i bambini spontaneamente usano per risolvere sul piano della fantasia, problemi che non riescono a risolvere sul piano della realtà (Fonzi 1985).

Mettendo in scena rappresentazioni immaginarie per le quali si serve di elementi che riesce facilmente ad azionare e a dominare, il bambino considera tali elementi come simboli delle persone e degli oggetti che nella realtà gli hanno suscitato ansia e rivive le situazioni a modo suo. Fa "finta che…", fa "come se…".

Con i suoi tempi e ritmi scompone la complessa situazione reale in piccole unità semplici, affidando a ciascun oggetto un ruolo preciso nel quale trasferire la propria parte di ansietà. È così che, padroneggiando le sue rappresentazioni, il bambino tenta di riuscire a padroneggiare le situazioni delle quali non ha ancora compreso il senso.

Per questo aspetto catartico, il gioco simbolico ha per il bambino il valore e il significato di un’autoterapia. D’altra parte, è noto come alcune psicoterapie infantili si basino proprio sulla osservazione del gioco (Klein 1950). Ed è precisamente in questo modo che, probabilmente, quel bambino, una volta solo, avrà spontaneamente usato i suoi pezzetti da costruzione.

Ma a questo punto sorge spontaneo un interrogativo:

- se quella del gioco è una soluzione del tutto semplice e alla portata di tutti i bambini, dove sono le difficoltà, in ospedale come altrove? Se i bambini posseggono questa naturale valvola di sicurezza, come mai c’è tanto disagio psicologico nell’infanzia? Come mai nel corso dell’infanzia maturano tanti problemi che più tardi, in adolescenza e in età adulta, esplodono in vere e proprie patologie?

Forse alla base delle difficoltà c’è anche il fatto che in realtà gli adulti tollerano poco il gioco dei bambini, lo facilitano poco, in fondo lo svalutano. Non sempre sono disposti a capire l’importanza di mettere a disposizione dei bambini, o quanto meno a non negare loro, i tempi, gli oggetti e gli spazi che il gioco richiede.

Troppo spesso accade che gli adulti si preoccupino più di proteggere gli arredi che di facilitare i bambini; che elevino a protezione dei propri spazi barriere contro le possibili intrusioni dei bambini. Barriere fisiche fatte di porte chiuse e pericoli vari, barriere psicologiche fatte di divieti e di immissioni di paure.

È importante, invece, che soprattutto l’ambiente ospedaliero, destinato ad ospitare bambini che stanno vivendo un’esperienza particolarmente difficile, favorisca e faciliti la loro attività di gioco, destinando a quest’ultima uno spazio appositamente allestito ed attrezzato dove i bambini stessi possano avere libero accesso quando ne abbiano bisogno. Anzi, mi sembra quanto mai opportuno che le attività di gioco siano affiancate da attività di disegno e pittura, di teatro di burattini e marionette, di racconto di fiabe e favole: tutto questo, infatti, sul piano della simbolizzazione dei vissuti, può avere il medesimo significato. È auspicabile inoltre che almeno una parte di tali attività venga organizzata in gruppo, con la consulenza costante di un educatore professionale e di uno psicologo dello sviluppo.

In un futuro non troppo lontano, sarà forse possibile per noi adulti responsabili del benessere fisico e psicologico dell’infanzia, far sì che una esperienza di ospedalizzazione precoce costituisca per chi la vive un motivo di crescita personale e ne imprima nella mente il ricordo di una parentesi felice perché ricca di attività interessanti e di interazioni significative.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  1. Bettelheim b. (1987) Un genitore quasi perfetto. Feltrinelli, Milano
  2. Carbonara, M.V. (1989) Il bambino in ospedale. Jovane, Salerno
  3. Carbonara M.V. (1993) Ospedalizzazione e simbolizzazione: i vissuti del bambino. Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di salerno
  4. Fonzi, A. (1985) Tra realtà e immaginazione. Età Evolutiva, 21, 56-67
  5. Klein, M. (1950) La psicoanalisi dei bambini. Martinelli, Firenze (1970)
  6. Pozella, A. (1999) Il dolore nel bambino. Tesi di laurea non pubblicata.
  7. Rogers, c.R. (1961) On becoming a person. New York, Houghton Mifflin.

La carta di EACH per un ospedale a misura di bambino

Giuliana Filippazzi

Coordinatore di EACH

European Association for Children in Hospital

Negli Anni Cinquanta la pubblicazione in Gran Bretagna del Rapporto Platt e il libro "il vostro bambino in ospedale" del pediatra James Robertson richiamarono l’attenzione dell’opinione pubblica degli operatori sanitari sul disagio e i disturbi di comportamento che l’allontanamento dall’ambiente familiare e la separazione dai genitori provocavano nei bambini ricoverati in ospedale. A quell’epoca infatti non era permesso che i genitori andassero a trovare il bambino degente; solo alcuni ospedali più liberali consentivano 2-3 visite la settimana di mezz’ora ciascuna. Il Rapporto Platt, presentato da un gruppo di medici e psicologi guidati dal chirurgo Sir Harry Platt non si limitò a esporre i risultati dello studio, ma fornì anche dei suggerimenti precisi per ridurre questo disagio e le sue conseguenze: tra queste, l’abolizione di limiti per l’orario di visita e la possibilità per i genitori di pernottare in ospedale con il bambino. Il Rapporto Platt e il libro di Roberston ebbero l’effetto di stimolare l’interesse sull’argomento da parte di pediatri e psicologi e di suscitare movimenti di opinione che sfociarono nella costituzione di associazioni di genitori per adeguare i regolamenti ospedalieri alle esigenze dei bambini, tenendo conto anche delle implicazioni psicologiche della malattia, del ricovero e della separazione dalla figura di riferimento.

Gli studi degli esperti e le proposte delle varie associazioni portarono alla Risoluzione del Parlamento Europeo del maggio 1986, dalla quale deriva la Carta dei diritti del bambino in ospedale (CARTA di E.A.C.H. = European Association for hildren in Hospital) redatta nel 1988 dai rappresentanti di associazioni mediche e di volontariato di 14 Paesi europei riuniti a Leida, in Olanda. Questa carta costituisce il documento ufficiale dell’associazione europea per il bambino in ospedale E.A.C.H., impegnata a diffondere la conoscenza e l’applicazione nei Paesi aderenti.

Nel 1993 hanno aderito anche rappresentanti dell’Albania, Croazia, Polonia, Rep. Ceca, Slovenia, Ungheria. Oltre al Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Norvegia, Olanda, Svezia, Svizzera.


 

Carta dei diritti del bambino in ospedale

Il diritto al miglior trattamento medico possibile è un diritto fondamentale, specialmente per il bambino.

 

Vediamo gli articoli in dettaglio:

 

Nonostante la diminuzione delle nascite, il numero dei ricoveri di bambini è in costante aumento. Attualmente, secondo statistiche non solo italiane, un bambino su due subisce un ricovero in ospedale prima dei 14 anni. Questo avviene spesso non tanto per la gravità della malattia, quanto per la difficoltà di curare il bambino a domicilio (padre e madre lavorano fuori casa, non ci sono altre persone disponibili per accudirlo). Le statistiche segnalano che un bambino su 4 viene ricoverato su richiesta dei genitori, anche se il medico non lo ritiene necessario.

La psicologia dell’età evolutiva ci insegna che fino ad una certa età il bambino percepisce la malattia come una punizione: l’allontanamento dall’ambiente familiare accresce l’ansia da separazione e il disagio psichico. Poter curare il bambino nella sua casa gioverebbe non solo a lui, ma a tutta la famiglia, e l’assistenza domiciliare dovrebbe quindi essere favorita. Un bambino in ospedale significa infatti cambiamenti radicali per tutta la famiglia, tra i quali anche la presenza di una persona estranea che gestisca la routine quotidiana mentre la mamma è in ospedale con il bambino malato. Questo può disturbare pesantemente i fratelli sani, che si sentono trascurati dai loro genitori e possono diventare gelosi del bambino malato, che ai loro occhi monopolizza l’affetto e l’attenzione ai genitori. Questo sentimento può protrarsi per anni e guastare il rapporto tra fratelli e tra figli e genitori.

Il bambino, già spaventato dalla malattia e dall’incidente che l’ha portato in ospedale, vive il ricovero in modo piuttosto drammatico, soprattutto se separato dalla mamma in un ambiente e in una situazione a lui sconosciuti. Per evitare la separazione e il senso di abbandono occorre conservare i rapporti sociali abituali, soprattutto con la figura di riferimento. Ciò si collega strettamente con il punto 3.

La presenza di un familiare costituisce un riferimento sicuro per il bambino, una sorta di filtro tra lui e l’ambiente circostante. Se la mamma può continuare ad accudire il figlio, ad esempio dandogli da mangiare a facendogli il bagno, mantiene nel bambino il senso di continuità con la vita "normale" e riduce lo stress dell’allontanamento dall’ambiente abituale e il disagio di essere manipolato da mani estranee. Mantiene inoltre un ruolo attivo, che conserva nel bambino la fiducia nel suo ruolo genitoriale. Nei paesi anglosassoni si sta diffondendo sempre più la cosiddetta "partnership in care", cioè un pieno coinvolgimento dei genitori nell’assistenza del bambino e nelle decisioni che lo riguardano. Perché ciò avvenga occorre un cambiamento radicale nell’atteggiamento di medici e infermieri verso il paziente e i suoi genitori, un’abdicazione dal ruolo di responsabili unici e onnipotenti della salute del bambino, come risultato di un’adeguata formazione psicopedagogica e della conoscenza di tecniche della comunicazione, non solo verbale. Questa ci porta al punto 4.

È estremamente importante che il personale sanitario (medici e infermieri) si presenti al bambino, che parli con lui, invece che di lui con la sua mamma, spiegandogli con pazienza che cosa gli farà, e perché. Molti bambini considerano le procedure mediche una specie di punizione o una mancanza di amore: occorre quindi rassicurarli che quanto verrà fatto loro è dettato da amore e attenzione nei loro confronti. Speso gli adulti comunicano più facilmente con un bambino usando pupazzi o burattini: questo non è una perdita di tempo, perché parlare con il bambino con un linguaggio a lui familiare aiuta a distogliere almeno in parte la sua attenzione dal dolore e a renderlo più collaborante. Anche i genitori vanno coinvolti in questa strategia, per rafforzare il messaggio e il ruolo del medico agli occhi del bambino. Questo approccio riduce il disagio non solo del bambino, ma anche degli stessi operatori sanitari, perché riescono a stabilire un rapporto diretto e meno persecutorio con il paziente. A volte capita che i medici ritengano non necessario spiegare ai bambini più grandi o agli adolescenti ciò che intendono fare, pensando che essi comprendano tutto da soli. Invece non è sempre così, e poiché gli adolescenti temono di apparire stupidi facendo domande, spesso non chiedono spiegazioni e la loro ansia cresce sempre di più. È quindi importante parlare con loro usando il loro linguaggio, aiutandosi con illustrazioni per spiegare che cosa verrà fatto e perché, quali saranno gli effetti, e rispettando i loro pudori. Purtroppo spesso il medico ritiene che spiegare con pazienza e chiarezza al bambino e ai genitori quanto intende fare sia un’inutile perdita di tempo, soprattutto con persone di condizioni modeste o con stranieri, che sono proprio quelle che hanno maggior bisogno di informazione. Inoltre il tempo "perso" in spiegazioni viene poi recuperato, in quanto il medico si è guadagnato la fiducia e la collaborazione del bambino e dei genitori.

Attualmente in Italia ben il 40% dei bambini viene ricoverato in reparti non pediatrici, dove sono assistiti da personale non adeguatamente preparato a rispondere alle loro necessità affettive e fisiche, con effetti negativi che possono perdurare per molti anni. Poiché ciò vale anche per gli adolescenti (per l’OMS l’età pediatrica va fino a 18 anni), gradualmente si fa strada anche tra medici la consapevolezza che questa fascia di età richiede un’assistenza diversa, in reparti separati. Sia per bambini che per gli adolescenti è comunque molto importante poter mantenere i rapporti sociali e affettivi con i coetanei, fratelli, amici e compagni di scuola: non devono quindi essere posti limiti all’età dei visitatori, anche se la loro presenza va regolamentata.

Oltre alla costante presenza di un familiare, anche l’assistenza scolastica e la possibilità di giocare sono una forma efficace di terapia. L’impegno a tenersi al passo con quanto fanno i compagni a scuola ha un significato rassicurante, soprattutto in caso di degenze lunghe ospedale malattie gravi: è la promessa implicita di ritorno alla vita normale ("studia, così quando torni a casa e vai a scuola sei alla pari con gli altri"). Alcuni ospedali sono già ben organizzati in questo senso, alcuni addirittura con la teledidattica, e consentono ai bambini di non sentirsi isolati grazie al quotidiano contatto con i compagni di scuola.

Quanto al gioco, sappiamo ormai quasi tutti che per il bambino non si tratta di un semplice passatempo: soprattutto in età prescolare il gioco è l’attività più importante per il suo sviluppo, perché la vita emotiva, l’apprendimento, e lo sviluppo intellettivo si realizzano soprattutto mediante il gioco, con il quale il bambino rivive le proprie emozioni ed esprime le sue tensioni.

Anche nelle fasi successive di sviluppo il gioco rappresenta una valvola di sfogo molto importante, soprattutto durante la malattia e il ricovero: con il gioco il bambino trova la continuità con la sua vita quotidiana e un valido mezzo di socializzazione, che valorizzando la sua parte sana gli ridà fiducia nelle sue capacità. Il gioco è il suo modo di rapportarsi con il mondo, di esprimere le sue ansie e i suoi timori se ancora non sa ospedale non vuole parlare. Il gioco diminuisce lo stress e favorisce la guarigione perché incoraggia il bambino a svolgere attività piacevoli e interessanti anche in ospedale, riducendo sia le conseguenze psicologiche, sia i tempi della degenza.

Per consentire al bambino di sviluppare tutte le sue potenzialità anche in ospedale occorre personale adeguatamente preparato. Oltre che per il personale sanitario ciò vale anche per gli animatori di gioco e gli insegnanti, che devono essere in grado di adeguare il loro intervento alla ridotta capacità di attenzione causata dalla malattia, comprendere le ansie inespresse, cogliere ogni spunto offerto dal bambino per facilitare comportamenti adattivi secondo le sue esigenze individuali. Non ci si improvvisa animatori o insegnanti ospedalieri, né si può scegliere questa attività per il proprio tornaconto (orari più comodi, vicinanza a casa, maggiore libertà nello svolgimento del programma scolastico, ecc.): la preparazione psicopedagogica adeguata può fare la differenza tra un’esperienza drammatica e un’occasione di crescita e maturazione interiore.

Ciò consente al bambino di instaurare un rapporto di fiducia con il medico e il personale di reparto, evitandogli lo stress di dover scoprire per ogni persona nuova il ruolo che essa svolge.

Questo vale per tutti, adulti e bambini, ma troppo spesso ci si dimentica che anche i bambini hanno una loro dignità. Sono esseri sociali, che desiderano essere salutati, che gli si parli direttamente, e che si sentono sminuiti se si parla "di" loro invece che "con" loro ospedale se non si rispetta la loro intimità. La psicologia ci insegna che l’integrità del corpo è più importante per il bambino che per l’adulto: è quindi necessario informarlo, usando il suo linguaggio e servendosi di disegni e figure per illustrare le cure da sottoporgli e per rassicurarlo sugli eventuali cambiamenti che la procedura può indurre nel suo aspetto. Anche il regolamento del reparto va spiegato. Quanto maggiore è il bambino, tanto più desidera controllare o almeno esprimere il suo parere su quanto lo riguarda. Si può ottenere la sua collaborazione quasi su tutto: basta cercarla.

Se con il termine "dolore" si intende non solo il dolore fisico, ma il "sentimento ospedale stato di profonda infelicità dovuto alla insoddisfazione dei bisogni, delle aspirazioni e delle tendenze individuali, alla privazione di ciò che procura piacere e gioia", secondo la definizione dello Zingarelli, si comprende facilmente che rispettando questi dieci punti si può contribuire al benessere globale del bambino, anche in ospedale. Non occorrono grandi investimenti economici, bastano sensibilità e buona volontà, e i risultati saranno a vantaggio di tutti: non solo del bambino, ma anche degli operatori sanitari, di cui agevolano il lavoro, perché il bambino è più sereno e collaborante, e della collettività, in quanto riducendo i tempi di degenza diminuiscono anche i costi per la collettività.


 

Il diritto allo studio per il bambino malato cronico e/o ospedalizzato

Marisa Crespina

A.N.P.O. (Associazione Nazionale Pedagoghi Ospedalieri)

H.O.P.E. (Hospital Organization of Pedagogues in Europe) – Roma

Il titolo della mia relazione potrà non sembrare attinente all’argomento cardine di questo Convegno, poiché tratta del Diritto allo studio del bambino malato cronico e/o ospedalizzato, ma, come ho già detto in altra occasione, mentre i sanitari si adoperano per mitigare il male fisico mediante terapie di vario genere, mentre gli psicologi attuano strategie di comportamento volte a distogliere il dolore, molto può fare in questo senso anche l’intervento degli insegnanti che possono aiutare il piccolo paziente a superare momenti di forte tensione emotiva attraverso il lavoro ludico-didattico. Ma non mi dilungo oltre su questo argomento, che sarà trattato dalla mia collega Giuseppina Fantone.

Una volta stabilito che anche la scuola può essere un valido strumento per combattere la paura del bambino, rivolgerò la mia attenzione alla mole di documenti, Carte, Dichiarazioni, Risoluzioni e così via, emessi sulla tutela del bambino malato e/o ospedalizzato nelle varie regioni italiane (Allegato 2).

A questo punto non possiamo che rallegrarci per l’attenzione che in Italia e nel mondo si presta alle problematiche relative ai minori in stato di malattia … La verità, però, è che ciò che è sancito per legge viene spesso e volentieri disatteso…Fortunatamente, in altri casi, si mettono in pratica idee che da dette Leggi non sono affatto previste.

Un esempio per tutti: la prima legge nella quale è stata ufficialmente inserita la scuola in ospedale è la n. 104 del 1992, "Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate", nella quale (art. 12, n.9), si dice che "Ai minori handicappati soggetti all’obbligo scolastico, temporaneamente impediti per motivi di salute a frequentare la scuola, sono comunque garantite l’educazione e l’istruzione scolastica. A tal fine il provveditore agli studi dolore’intesa con le unità sanitarie locali…provvede alla istruzione, per i minori ricoverati, di classi ordinarie quali sezioni staccate della scuola statale. A tali classi possono essere ammessi anche i minori ricoverati nei centri di degenza, che non versino in situazioni di handicap e per i quali sia accertata l’impossibilità della frequenza della scuola dell’obbligo per un periodo non inferiore a 30 giorni di lezione.."

A parte il fatto che i numeri relativi ai ricoveri in età pediatrica nei presidi sanitari dovrebbero suggerire piuttosto il contrario, a parte il fatto che un bambino malato e/o ospedalizzato non può certo essere considerato un soggetto handicappato (con tutto il rispetto per chi purtroppo lo è) c’è da tenere il considerazione il fatto che, per fortuna (!) oggi, grazie al DH e alla ospedalizzazione domiciliare, sono ben pochi i bambini costretti a rimanere più di 30 giorni in ospedale.

Se i capi dolore’Istituto e gli insegnanti avessero applicato alla lettera la Legge, proprio i ragazzi più bisognosi di assistenza scolastica non ne avrebbero potuto usufruire: infatti i malati oncoematologici, per esempio, trascorrono solo pochi giorni consecutivi in ospedale o vengono curati in DH, ma quando vengono dimessi, spesso (e…malvolentieri) non possono frequentare la scuola pubblica a causa delle loro condizioni di salute; i pazienti dializzati, che trascorrono anni e anni a giorni alterni in ospedale, perdono in realtà metà anno scolastico, ma neanche loro avrebbero diritto al supporto didattico che la scuola in ospedale può offrire loro. In seguito alla libera interpretazione di questo confuso articolo, sezioni di scuola in ospedale sono state chiuse, altre si sono aperte. E quanto detto fin qui ci porta anche a considerare la necessità dell’istituzionalizzazione della scuola a domicilio (cosa già in atto in molti paesi europei), logica conseguenza dell’ospedalizzazione a domicilio.

Tornando alla normativa, della quale avete visto un elenco, fermerò la mia attenzione in particolare sulle Leggi Regionali emanati sulla tutela del bambino ricoverato nelle strutture sanitarie pubbliche o convenzionate.

Da un’attenta osservazione delle Leggi prese in considerazione (24) risulta che:

22 LL.RR (91,6%) si propongono di mantenere l’equilibrio psicoaffettivo del bambino

7LL.RR. (29,1%) prevedono corsi di formazione del personale sullo sviluppo psicologico, cognitivo ed espressivo del pazienti in età evolutiva.

2LL.RR. (8.3%) consigliano al personale del reparto di "favorire un rapporto di conoscenza e di fiducia con il bambino per ridurre gli effetti negativi dell’ospedalizzazione".

7LL.RR. (29.1%) si preoccupano di facilitare l’adattamento del bambino all’ambiente ospedaliero, ma solo 5 di esse (71,4%) permettono che il bambino porti con sé oggetti personali o giocattoli.

17 LL.RR. (70,8%) raccomandano che, sia in fase di costruzione di nuove strutture che di ristrutturazione delle già esistenti, si provveda a spazi per il gioco, solo 9 di queste (52,9%) parlano di personale idoneo all’attività ludica o di animazione.

Passando all’argomento che più mi è vicino, sia perché ho insegnato per 21 anni in uno ospedale pediatrico, sia perché faccio parte dell’ANPO, ho notato che:

4 sole Leggi (16,6%) parlano esplicitamente del diritto allo studio (Friuli Venezia Giulia, liguria, Toscana, Sicilia), specialmente nel caso di lungodegenti, magari dolore’intesa con gli organi scolastici competenti.

11LLRR.. (45,8%) propongono di riservare locali idonei per lo studio (contro le 17 che considerano le sale gioco), dove i bambini dovrebbero svolgere delle attività piuttosto vaghe, p.e. "didattiche ed integrative" a volte con lo scopo di agevolare il reinserimento nella scuola di appartenenza".

Ma chi dovrebbe guidare i piccoli alunni/pazienti in questa attività?

Le proposte in questo caso sono le più diverse:

solo in una legge, quella della Lombardia, ho trovato la parola insegnanti, che è la più semplice e nello stesso tempo la più qualificata per indicare chi deve svolgere attività didattica con i bambini.

Alcune leggi, per la precisione 4 (16,6%) consentono la possibilità di insegnamento ad opera di docenti scelti dai genitori, quindi esterni; probabilmente si riferiscono a strutture sanitarie nelle quali non è presente la scuola statale.

C’è quindi grande confusione. Benché quasi tutte le LLRR concludano dicendo che è fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e farla osservare come legge della regione" noi che lavoriamo nel campo sappiamo bene quanto esse siano disattese: la scuola dell’obbligo non è attiva in tutte le strutture in cui ce ne sarebbe bisogno quindi il diritto allo studio per gli alunni/degenti non è sempre garantito; nonostante tutte le discussioni che ormai da più di venti anni si stanno facendo sulle problematiche legate all’istruzione del bambino malato cronico e/o ospedalizzato, nonostante tutti i tentativi fatti in questo lungo periodo dagli insegnanti che operano nelle strutture sanitarie per avere una normativa specifica sull’argomento.

Fortunatamente (in questo caso) come ho già detto in precedenza, quanto stabilito da queste leggi, che oserei definire "poco chiare", non è seguito alla lettera e la scuola in ospedale va avanti passo dopo passo, giorno dopo giorno, governo dopo governo…

Qualcosa tuttavia si sta muovendo e ne è la prova la C.M. n. 353 – 7 agosto 1988, scaturita dal lavoro di due commissioni di esperti istituite presso il M.P.I. dopo molti incontri svoltisi durante un intero anno.

Voglio però concludere con una considerazione molto positiva: la Regione Molise è l’ultima in ordine di tempo ad aver emanato una legge generale sulla "tutela dei diritti dei malati" (n.28 del 21/11/97), ma devo dire che è l’unica (4,1%) nella quale ho trovato un accenno al tema centrale di questo incontro là dove dice che la struttura sanitaria deve "promuovere l’uso della terapia del dolore", anche se fa riferimento solo ai malati terminali. Inoltre è l’unica regione (4,1%) che ha emanato una legge sull’istruzione a domicilio, a favore degli studenti che ha causa delle loro condizioni di salute non possono frequentare regolarmente o del tutto la scuola.

E questo credetemi, non è poco!

(allegato 1)

DOCUMENTI NAZIONALI

DOCUMENTI INTERNAZIONALI

(allegato 2)

LEGGI REGIONALI

Elenco Leggi Regionali in ordine cronologico

 

Regione

N. legge

Data emanazione

Titolo

Campania

7

20-02-1978

Tutela della condizione del bambino ricoverato negli ospedali regionali

Veneto

7

25-1-1979

Tutela del bambino ricoverato nel Ospedali della Regione

Liguria

12

6-2-1980

Tutela della condizione del bambino ricoverato in ospedale

Emilia Romagna

24

1-4-1980

Norme per l’assistenza familiare e per la tutela psico-affettiva dei minori ricoverati nei presidi ospedalieri

Piemonte

18

1-4-1980

Norme per l’assistenza familiare e per la tutela psico-affettiva dei minori ricoverati nei presidi ospedalieri

Puglia

73

20-6-1980

Norme per l’assistenza familiare e per la tutela psico-affettiva dei minori ricoverati nei presidi ospedalieri

Valle d’Aosta

28

21-7-1980

Interventi per la tutela della maternità, infanzia ed età evolutiva

Abruzzo

29

14-8-1981

Norme per l’assistenza familiare e per la tutela psico-affettiva dei minori ricoverati nei presidi ospedalieri

Umbria

29

 

 

27

31-5-1982

 

 

 

20-5-1987

Norme ed indirizzi per il riordino delle funzioni amministrative e per la programmazione dei servizi in materia socio-assistenziale.

Carta dei diritti degli utenti dei servizi delle Unità locali per i servizi sanitari e socio-assistenziali dell’Umbria

Trento

(legge provinciale)

13

16-8-1982

aggiornata al

31-12-1992

Norme rivolte al miglioramento delle condizioni in cui avviene la nascita negli ospedali della provincia di Trento e alla tutela dei bambini in cura o degenti in ospedale

Lazio

39

14-9-1982

Riorganizzazione dell’assistenza neonatale e norme sull’assistenza del bambino ospedalizzato

Toscana

36

1-6-1983

Norme per la salvaguardia dei diritti dell’utente dei servizi delle Unità Sanitarie Locali

Bolzano

(delibera provinciale)

(non esaminata qui)

2919

24-6-1983

Direttive Riguardanti l’assistenza familiare e per la tutela psico-affettiva dei minori nei presidi sanitari pubblici e privati convenzionati

Sardegna

25

6-9-83

Norme per l’assistenza familiare e per la tutela psico-affettiva dei minori nei presidi sanitari pubblici e privati convenzionati

Friuli-Venezia-Giulia

23

1-6-1985

aggiornata alla

L.R. 3-3-00 n.6

Norme per la salvaguardia dei diritti del cittadino nell’ambito dei servizi delle Unità Sanitarie Locali

Calabria

11

28-3-1986

Tutela affettiva dei minori sottoposti a trattamenti sanitari

Lombardia

 

 

 

16

 

48

8-5-1987

 

16-9-1988

La tutela della partoriente e la tutela del bambino in ospedale

Norme per la salvaguardia dei diritti dell’utente del servizio sanitario nazionale e istituzione dell’ufficio di pubblica tutela degli utenti dei servizi sanitari e socio-assistenziali

Basilicata

6

29-3-1991

Norme per la salvaguardia dei diritti delle persone che usufruiscono delle strutture del S.S.R. o con esso convenzionate

Sicilia

7

30-1-1991

Norme per la salvaguardia dei diritti dell’utente del Servizio Sanitario Nazionale e istituzione dell’Ufficio di pubblica tutela degli utenti dei servizi sanitari

Marche

23

 

16

2-6-1992

 

28-6-1993

Diritti della partoriente e del bambino ospedalizzato

Istituzione del servizio di Oncoematologia Pediatrica all’Ospedale dei Bambini Salesi di Ancona

Molise

28

20

21-11-1997

24-3-2000

Tutela dei diritti dei malati

Interventi a favore degli studenti affetti da patologie che non consentono la frequenza dei corsi di studi


 

Iniziative tendenti al miglioramento della qualità di vita nel bambino malato cronico e/o ospedalizzato

Giuseppina Fantone

Consulente UNICEF – Italia

ANPO (Associazione Nazionale Pedagoghi Ospedalieri)

Provveditorato agli studi - Roma

 

Essendo stata per molti anni a contatto con i bambini malati, prima come volontaria poi come insegnante in un grande ospedale pediatrico, infine come incaricata dal Provveditorato agli Studi di Roma ad occuparmi delle scuole in ospedale romane, l’argomento della mia relazione verterà in particolare sulle problematiche legate all’educazione ed istruzione del bambino malato ed in particolare su quelle iniziative già realizzate, o in fase di progettazione o attuazione, che hanno come scopo il miglioramento della qualità di vita del bambino malato e/o ricoverato.

L’ospedalizzazione in età pediatrica, breve o lunga che sia, separando il bambino dalla famiglia e dall’ambiente sociale abituale, costituisce un’interruzione nella normalità della vita che può procurare traumi emotivi, le cui conseguenze, sotto vari aspetti, si possono protrarre a lungo nel tempo, a volte perfino nell’età adulta. Anche la malattia cronica, pur non richiedendo lunghi periodi di ospedalizzazione, ma ripetuti ricoveri in DH, può produrre gli stessi effetti deleteri. In base alla mia esperienza, posso affermare che spesso i minori affetti da malattie croniche o costretti a lunghi e/o ripetuti ricoveri ospedalieri, se non sono adeguatamente assistiti anche nel campo dell’educazione e dell’istruzione, giungono ad un precoce abbandono degli studi, ma ancor più ad un livello culturale talmente basso rispetto a quello dei coetanei e così inadeguato alle richieste della società odierna da farne degli individui a rischio psico-sociale, specialmente per quel che riguarda il loro inserimento nel mondo del lavoro, con un conseguente elevato costo sociale.

Sempre più negli ospedali, specialmente nei grandi centri pediatrici, si tenta, con programmi e servizi adeguati, di far sentire i piccoli pazienti "più a casa", riducendo al massimo i danni prodotti dal ricovero. Già dagli anni ottanta, per esempio, si è data ai genitori la possibilità di rimanere accanto ai propri figli ricoverati ventiquattro ore su ventiquattro, sono entrate negli ospedale associazioni di volontariato, specializzate nell’assistenza al bambino malato ed ai suoi genitori e le Direzioni Sanitarie hanno richiesto con sempre maggior frequenza l’intervento di operatori ludici e l’istituzione del servizio scolastico all’interno dei presidi sanitari, come sostegno socio-psico-pedagogico per i bambini ospedalizzati. Oggi, in moltissimi ospedale italiani, pediatrici e non, ci sono sezioni di scuola dell’obbligo, perfino di scuola materna la cui importanza sappiamo essere fondamentale in un periodo in cui vanno particolarmente soddisfatti i bisogni affettivi e cognitivi del bambino.

Fortunatamente esistono dei gruppi, costituiti da insegnanti, che si preoccupano, con grande dedizione e capacità professionale, di assicurare anche ai bambini ospedalizzati quell’esercizio basilare della prima infanzia che è il gioco e di promuoverne l’importanza; cito qui l’Associazione nazionale "A.C.Capelli –Gioco e studio in ospedale" con sede a Genova ed i "Gruppi Gioco in Ospedale" istituiti dall’Assessorato per l’Istruzione- XXVII Settore Amministrativo Asili Nido e Scuole per l’Infanzia della Città di Torino. Quello che manca, purtroppo, sono gli spazi in cui i bambini si possano dedicare alla loro attività preferita!.

Infatti, sebbene tutte le Leggi Regionali sulla salvaguardia dei diritti dell’utente dei Servizi delle Unità Sanitarie Locali ed in particolare sulla tutela del bambino in ospedale, prevedano "spazi per sale gioco", sia in fase di costruzione che di ristrutturazione dei presidi sanitari, i piccoli degenti che possono usufruire di questi ambienti non sono certo la maggioranza. In alcuni casi si cerca di ovviare alla cosa predisponendo spazi ludici centralizzati ai quali in teoria potrebbero accedere tutti i bambini ricoverati, ma che nella realtà ne ospitano ben pochi poiché, viste le più recenti norme in materia di sanità, la lunghezza delle degenze si è molto ridotta quindi i bambini che rimangono più a lungo in ospedale sono quelli che non si possono certo muovere dal reparto in cui sono ricoverati.

Tra le più recenti attività poste in atto per rendere migliore la qualità della vita del bambino ospedalizzato, vorrei prima di tutto accennare a quella ultimamente attuata dal Ministero della Pubblica Istruzione alla quale è stato dato il titolo "Coloriamo gli ospedali": nell’ambito delle iniziative volte a celebrare il Decennale sui Diretti dell’Infanzia, l’Ispettorato per l’Istruzione Artistica del M.P.I., in collaborazione con l’UNICEF –Italia e le Accademie di Belle Arti di numerose città italiane, sta realizzando un Progetto finalizzato al miglioramento dell’aspetto estetico dei luoghi di degenza riservati ai bambini, così da rendere più piacevoli gli ambienti in cui essi sono costretti a vivere la malattia. Tutti noi sappiamo quanto un ambiente più allegro possa influire in maniera positiva oltre che sulla salute fisica anche su quella psichica. Inoltre, l’iniziativa si propone di sensibilizzare i giovani, in questo caso gli studenti delle Accademie di Belle Arti, verso i problemi dei più deboli, qui rappresentati dai bambini degenti in ospedale.

Quest’ultimo obiettivo lo ritroviamo anche nella Campagna sulla Donazione del Sangue, "Bella è la vita se salvi una vita", organizzata dall’Assessorato alle Politiche Educative, Formative e Giovanili nel Comune di Roma tra gli studenti maggiorenni che frequentano le scuole superiori della nostra città allo scopo di creare una vera e propria cultura della donazione, in modo che essa non sia un episodio sporadico nella loro vita, ma diventi una costante, come costante è il bisogno di trasfusione di tanti bambini, anche piccolissimi, la cui sopravvivenza dipende proprio da questo gesto di solidarietà.

Una delle ultime novità, portata allo scoperto dall’ormai famoso film "Patch Adams", è la cosiddetta "clownterapia" che si sta diffondendo negli ospedali e reparti pediatrici, e in qualche caso perfino nei raparti per adulti. Distrarre almeno per qualche ora i piccoli degenti dalle sofferenze fisiche e psichiche mediante "gags", giochi di mimi, magie, musica, trapianti di cioccolata, costumi colorati e buffi nasi rossi a palloncino può sicuramente dare risultati positivi; tuttavia è importante che questi "terapisti del sorriso" non si limitano a far divertire il bambino, ma sappiano capire quali siano le reali paure e necessità del singolo e su queste lavorino, come fa, per esempio, la Fondazione (svizzera) Theodora che opera presso l’Ospedale San Gerardo di Monza.

Un altro importante sentiero da percorrere per rendere meno dure malattia ed ospedalizzazione è quello dell’informazione, ma, poiché una situazione sconosciuta fa molta paura proprio in quanto tale, bisognerebbe che essa (l’informazione) fosse già in possesso del bambino e/o dei genitori, nel momento della necessità. Parecchie iniziative, a volte di semplice ragguaglio, a volte di sostegno psicologico, in volumetti o video, realizzati da Associazioni, Ospedali o Case Editrici sensibili a questo tipo di problematiche, si sono concretizzate o sono in fase di gestazione (vedi bibliografia) come il vademecum "Vado, mi curo e torno" che è allo studio dell’Assessorato alle Politiche per la Città delle Bambine e dei Bambini del Comune di Roma.

La pubblicazione, che dovrebbe essere distribuita in tutte le scuole materne ed elementari della città, dovrebbe fornire ai bambini una preparazione quanto più adeguata possibile all’insorgere di una malattia o alla necessità di un ricovero ospedaliero, aiutandoli trasformare l’eventuale esperienza di malattia in un percorso partecipato verso la guarigione in una situazione conosciuta e, per questo, forse meno penosa.

Anche le nuove tecnologie vengono in aiuto dei piccoli malati cronici e/o ospedalizzati, sia che si trovino in ospedale sia al proprio domicilio. Parecchi anni fa Telecom Italia, in collaborazione con il M.P.I. e con l’A.N.C.I. ha dotato diversi ospedali italiani ed alcune scuole esterne di stazioni multimediali che permettevano, fra l’altro, ai piccoli degenti di rompere l’isolamento dovuto al ricovero e di mantenere una continuità di relazione con il mondo esterno, attraverso il contatto con bambini di altri ospedali o con classi di scuole esterne. Oggi, naturalmente, la comunicazione telematica si è molto semplificata ed estesa, ma un campo nel quale ancora resta da fare è quello dell’assistenza scolastica domiciliare.

In seguito alla crescente politica sanitaria di deospedalizzazione ci troviamo con un sempre maggior numero di bambini malati cronici che non trascorrono più lunghi periodi di ricovero, ma vengono curati dall’ospedale al proprio domicilio. Il punto è che non possono comunque frequentare la scuola, a volte per anni; è possibile ridurre lo stato dolore’isolamento dall’ambiente scolastico proprio usando il mezzo tecnologico, che non deve però, e del resto non potrebbe farlo,, sostituire il contatto umano con insegnanti e compagni di scuola.

Posso a questo punto concludere ribadendo alcune proposte che potrebbero, in futuro, rendere ancora più vivibile la situazione di malattia per i nostri bambini:

  1. Piena concretizzazione di quanto proposto nelle varie LL.RR. e, eventualmente, loro integrazione.
  2. Diffusione della scuola dell’obbligo, con insegnanti adeguatamente preparati, in tutti gli ospedali o reparti pediatrici.
  3. Creazione di spazi per il gioco, opportunamente attrezzati e gestiti da personale specializzato (p.e. animatori ludici) all’interno dei singoli reparti
  4. Dove la mancanza di spazi (endemica in alcune strutture italiane!) non permetta altro, fornitura di strutture mobili adeguatamente attrezzate, sempre gestite da personale qualificato.
  5. Miglioramento dell’aspetto estetico di TUTTI gli ambienti di degenza pediatrica
  6. Espansione dell’informazione sulla realtà ospedaliera, magari attraverso le scuole (nelle quali, peraltro, esistono dei Referenti per la Salute)
  7. Promozione dell’assistenza scolastica e del volontariato a domicilio di pari passo con l’ospedalizzazione domiciliare
  8. Formazione del personale che, a qualsiasi titolo svolga la propria attività accanto ai bambini malati. Siano essi medici, infermieri, insegnanti, volontari, ecc., tutti devono lavorare con un unico scopo: il benessere globale del piccolo paziente.

E, naturalmente, in questa occasione, non posso che unirmi a quanto proposto dal titolo del Convegno: se ci sono armi che possono lenire il dolore nei bambini, in particolar modo farmacoterapiche, ben vengano! Solo che non è mai stato toccato, direttamente o indirettamente, dalle sofferenze che devono patire i piccoli malati non può capire quanto essi possono soffrire. E concludo, a discapito di noi adulti, che, vivendo con loro in ospedale, anche in questo campo riceviamo delle "grandi" lezioni di vita".

 

BIBLIOGRAFIA

Opuscoli informativi:

Altro:


Un reparto pediatrico a misura di bambino

Augusta Volonté

Animatrice Ospedale di Tradate (VA)

I bambini arrivano in ospedale, nella maggior parte dei casi, molto spaventati: hanno del resto sempre visto i genitori ed in generale gli adulti intorno a loro associare a questo ambiente volti tesi e sguardi preoccupati e, quindi, non possono che considerarlo sostanzialmente un "brutto posto" dove succedono "brutte cose". Nostro sforzo costante è di agire sulla componente psicologica del dolore e della paura legata alla non conoscenza e quindi all’immaginazione distorta (spesso catastrofica) si come e quando questa sofferenza si realizzerà e finirà.

Osservando i disegni dei bambini di età compresa tra, i 5 e i 12 anni è emerso come la paura, la preoccupazione e l’espressione siano presenti in ogni bambino e variano in relazione con l’età.

I più piccoli, molto spesso, rappresentano anche le espressioni del personale medico con una sorta di ironia dietro la quale si cela la paura ma, anche il coraggio che loro stessi vogliono darsi. È come se ingaggiassero una sfida con se stessi, si sentissero grandi e volessero vincere il dolore.

Esprimono verbalmente le paure, facendo parlare i personaggi delle loro rappresentazioni iconiche, riproducono il medico come il "cattivo" per eccellenza, ingrandendo sia la sua figura fisica, sia gli oggetti che egli utilizza, inoltre, i bambini abituati a vedere i cartoni animati violenti, sono maggiormente sollecitati ad introdurre nel disegno strumenti inopportuni rispetto al contesto ospedaliero: ecco la presenza brusca di asce o lame che scendono dal soffitto…

Le considerazioni che si possono trarre da tutto quello finora espresso convergono nella realizzazione di un "progetto di accoglienza" sostenuto dalla nostra équipe costituita da medici, infermieri, due educatori ed una maestra; alla sua base vi sono un ambiente caldo, accogliente e a "misura di bambino", medici ed infermieri che si fanno conoscere e dimostrano molta attenzione nelle cure medico-infermieristiche da adottare nei confronti dei piccoli degenti ed, infine, la presenza di due educatori e di una maestra, che hanno il compito di far elaborare al bambino il suo vissuto ed aiutarlo a decentrarsi dalle sue paure attraverso attività ludiche e ricreative.

Per far fronte alla paura del bambino di dover entrare in un ambiente a lui estraneo e sconosciuto, abbiamo fatto affrescare i corridoi del Reparto di Pediatria con murales a tutta altezza che fossero in grado di attrarre il bambino e catturare la sua attenzione cominciando a distrarlo dai propri timori. I soggetti sono stato scelti e realizzati avvalendosi della collaborazione di un pedagogista e di esperti scenografi che hanno dipinto lungo il corridoio dolore’ingresso il percorso della fiaba classica: a partire dalla casa dalla quale tutti i protagonisti delle fiabe si allontanano per entrare poi in quel bosco dove incontreranno antagonisti e aiutanti,magici grazie ai quali riusciranno ad arrivare alla felice conclusione del loro cammino. Dopo aver attraversato una radura popolata da simpatici folletti e buffi gnomi ecco, infatti, il castello del e della regina dove tutti "vissero felici e contenti".

Le camere di degenza si affacciano, invece, sulla coloratissima sfilata di animali che raggiungono l’arca di Noè, dalla quale poi scendono verso una terra fiorita dopo il diluvio, mentre l’esteso mare pieno di morbidi pesci tondeggianti offrirà alla zona dei lattanti un mondo sottomarino adatto al primo approccio con forme e colori.

Si è quindi voluto proporre a chi entra in reparto un mondo non freddo ed estraneo, bensì magico, coinvolgente e familiare; ma si è anche voluto offrire ai degenti un ambiente a misura di bambino ("Ricordati mamma che la mia stanza è quella tra il leone e la giraffa!", e ricco di stimoli (una nonna riusciva a giocare con la nipotina per ore facendole riconoscere i particolari della casetta e inventando, grazie ad essi, numerose storie sempre diverse).

Un altro ambiente che vuol favorire e garantire al piccolo degente la sua dimensione di bambino è rappresentato da un’ampia, luminosa e coloratissima Sala Giochi in cui lavorano due educatrici ed un gruppo di volontari. Ecco il vero cuore della Pediatria. Ogni giorno della settimana (festivi compresi) dalle 9.00 alle ore 18.00 vengono proposti giochi ed attività manuali, quali: origami, pasta di sale, traforo, textura ed utilizzo creativo della carta, cartone, alluminio, lana e altro materiale di recupero. Vi sono, inoltre, una piscina morbida, una casetta in cui cucinare e giocare con le bambole e un grande tavolo per giochi dolore’acqua.

Destano curiosità e grande divertimento le semplici rappresentazioni e gli spettacoli di burattini a cui assistono i genitori e, se possibile, anche medici e infermieri.

È molto importante coinvolgere nelle attività anche i genitori.

Nelle ore che trascorrono vicino ai propri figli in un ambiente sereno e soprattutto attento ai loro bisogni, le ansie e le angosce vengono sedate e si instaura un clima di solidarietà e di allegria che si ripercuote positivamente sullo stesso bambino. I bambini che non possono alzarsi vengono portati con il letto in Sala Giochi: se, ad esempio, un bambino deve trascorrere molte ore in trazione, diventa facilmente irritabile; ma, se gli si offrono opportunità di gioco interessanti, anche il dover restare immobile viene da lui accettato serenamente.

Inoltre, chi non può venire in sala Giochi non viene assolutamente lasciato da solo nella propria camera; un’educatrice o una volontaria, infatti, hanno il compito di recarsi nella sua stanza di degenza per intrattenerlo con attività piacevoli.

Se un bambino compie gli anni durante il periodo di degenza si organizza per lui una grande festa chiedendo la collaborazione di tutti per la preparazione degli addobbi e della torta. Una volta alla settimana, viene anche preparata, con l’aiuto di tutti i bambini, una gustosissima pizza. È un momento di grande eccitazione mettere le mani nella pasta, spianarla e condirla finché è pronta per essere informata e poi offerta agli altri piccoli degenti, ai genitori ed anche ai medici: l’ospedale ed il dolore, in questi momenti, sono ben lontani dai pensieri del bambino…

In Sala giochi viene però organizzato anche il "gioco del dottore", fondamentale per esternare le preoccupazioni e le paure che, a parole, spesso è difficile esprimere. Ogni bambino, indossando un camice vero, diventa un medico del reparto: i dialoghi con gli altri, i gesti, la gentilezza sono lo specchio esatto di tutto quello che si è sentito dire. Di finto, poi, ci sono le bambole; tutto il resto è vero: i fonendoscopi, le siringhe, l’ovatta, le flebo ed, inoltre, le bottiglie di medicine, naturalmente riempite dolore’acqua. Quando, guariti, tornano a casa, molti bambini serbano proprio questo come uno dei ricordi più significativi della loro esperienza ospedaliera.

Per un maggior coinvolgimento delle mamme, abbiamo ritenuto opportuno acquistare una macchina da cucire; infatti, come esperte sarte, hanno realizzato variopinti grembiulini e coloratissimi vestiti per le bambole presenti in Sala Giochi.

Inoltre, il nostro obiettivo principale è quello di realizzare, con la collaborazione dei bambini, delle bambole di pezza che, poi, potranno portare a casa.

L’angolo preferito della Sala giochi resta, comunque quello riservato ai nostri animali: i due conigli Sonia e Ubaldo, i pesci rossi, le tartarughe d’acqua, gli uccellini, i pappagalli ed i criceti si sono rivelati capaci di suscitare la curiosità dei più grandi e di stabilire un immediato contatto con i più piccoli, aiutandoli a tranquillizzarsi a superare i traumi del ricovero proiettando le proprie paure e le proprie preoccupazioni sugli stessi animali, prendendosene cura.

Accanto alle proposte ludiche della Sala giochi per il quinto anno è istituita una pluriclasse elementare con la presenza di un insegnante a disposizione dei bambini che desiderino continuare le proprie attività scolastiche.

Anche questo servizio è naturalmente finalizzato ad aiutare il bambino a convivere, il più serenamente possibile, con la malattia: i bambini, infatti, non solo non rifiutano il fare scuola in questo ambiente, ma mostrano di desiderarlo, probabilmente perché costituisce un elemento di continuità con quella che è la loro normalità e di cui la degenza rappresenta solo una breve parentesi. Il lavoro, in base al tipo di attività da svolgere, alle esigenze e preferenze espresse dai piccoli degenti, al loro numero e alla loro età viene articolato sia individualmente che in piccolo gruppo, tenendo comunque sempre presente che bisogna, innanzi tutto, privilegiare nei confronti del bambino malato, il rapporto empatico – affettivo, qualunque sia la sua età, come presupposto indispensabile sia per una più rapida guarigione, sia per una risposta positiva a qualsiasi proposta ludico-didattica che gli venga rivolta.

Poiché la vita presenta degli elementi di novità, anche in ospedale, per due volte la settimana, arrivano i clown: Dottor Bombo e Dottoressa Tatì.

Con il loro viso colorato ed indossando bellissimi camici, si divertono a disinfettare le camere dei piccoli degenti con delle bolle di sapone, a costruire mille oggetti e animaletti con i palloncini colorati: hanno, sempre, qualche nuova magia nelle loro tasche ed annunciano il loro arrivo con il suono di vari strumenti musicali.

I dottori/clown della Fondazione Aldo Garavaglia giungono in reparto, si informano del numero di bambini a cui fare visita e sul loro stato di salute fisica e psicologica: si avviano, poi, a visitarli nelle singole camere, proprio come fanno i medici tutte le mattine: a questo punto, sfoderano tutto il loro talento di improvvisazione e la loro capacità di divertire creando su misura dei piccoli skecth, facendo il possibile per coinvolgere il bambino, naturalmente entro limiti delle sue possibilità, ed il genitori o adulto a lui vicino.

A complemento dell’accoglienza del bambino e della sua serenità è consentito ai genitori di restare sempre accanto al proprio figlio: durante la visita o il prelievo nel caso di operazioni più complesse, quali una lombare o altri esami diagnostici di un "certo peso", nel momento dei pasti, durante le attività di gioco in sala Giochi ed anche per tutta la notte; in ogni camera, infatti, accanto al letto del bambino è posta una poltrona-letto per la mamma. Alla sera, prima di addormentarsi, il bambino ha la possibilità di ascoltare la lettura di una fiaba da parte della mamma, grazie ai cosiddetti "libri della buona notte", che vengono dati dagli educatori o dai volontari prima della chiusura della Sala giochi; i più grandi, invece, si dilettano nella lettura di libri di vario genere da loro scelti.

Inoltre, la mamma ha la possibilità di accompagnare il bambino in sala operatoria e star accanto a lui fino al momento in cui si addormenterà; questo è segno di una grande sensibilità ed umanità da parte di tutta l’équipe medico-infermieristica.

Naturalmente è possibile realizzare tutto questo solo all’interno di un determinato clima di lavoro che si deve basare sulla stima e sulla reciproca considerazione, non solo professionale ma anche personale, tra medici, infermieri ed educatori.

Quello che ci preme di garantire è, infatti, che ogni bambino ed ogni genitori possano sentirsi a loro agio con noi, liberi di esprimersi e di comunicare anche i propri disagi e le proprie preoccupazioni, sentendosi sicuri di trovare sempre qualcuno disposto ad ascoltarli ed a sostenerli. Solo così, pensiamo di poter fare tutto il possibile per aiutare il bambino a far fronte alle proprie paure ed al proprio dolore.

Alcuni anni fa Grazia Honegger, psicopedagogista e presidente dell’Associazione "Centro Nascita Montessori" di Roma, dopo aver frequentato per un breve periodo il nostro reparto, ci salutò dicendosi: "qui da voi si vive lo spirito dell’"I CARE".

Ci riconoscemmo allora in quella frase, "I CARE" (mi prendo cura di), che Don Milani teneva in vista nella piccola stanza in cui insegnava a leggere e a scrivere ai figli dei poveri.

Ancora una volta la vogliamo riproporre: "I CARE": quasi intraducibile, tanto oltre la semplice cura va l suo significato.

"I CARE" : mi importa, mi riguarda, me ne occupo, mi prendo cura di, mi sta a cuore…il bambino nella sua totalità che comprende anche l’ambiente/il mondo in cui vive e cresce e che dovrebbe comprenderlo.


 

Conclusioni

Paolo De Vivo

Primario Anestesia e Rianimazione

Ospedale "Casa Sollievo della Sofferenza"

S. Giovanni Rotondo (FG)

 

"Bene, il bambino si muove". "Il dolore è il miglior analettico di cui disponiamo". Erano convinzioni che io stesso ho condiviso tra la fine degli anni ’60 e gli inizi di quelli ’70. Ricordo che a me, giovane specialista che si cimentava con la chirurgia pediatrica, venne appunto insegnato che la superficializzazione del piano di anestesia nelle fasi finali dell’intervento doveva essere precoce per ottenere attraverso il dolore un buon risveglio e l’autonomia respiratoria.

Gli anni hanno dimostrato quanto questa posizione fosse erronea, possiamo, con benevolenza, solo tentare di giustificarla se riflettiamo all’inadeguatezza delle conoscenze e delle esperienze, alla minor disponibilità di farmaci, alla scarsità di tecnologie di monitoraggio e di supporto delle funzioni vitali. Oggi queste condizioni di carenza, per fortuna, non sono più presenti e tuttavia il mito o i miti relativi all’utilità del dolore, alla sua ineluttabilità, alla sua capacità salvifica e purificatrice, alla pericolosità dei mezzi che lo combattono sono ancora ben radicati nella nostra società, nella nostra realtà sanitaria, all’interno oltre che all’esterno degli ospedali.

La situazione è addirittura drammatica se si analizza la realtà dell’Italia meridionale: ottenere prescrizioni di analgesici oppiacei per il trattamento di dolori acuti e cronici è un’impresa disperata; l’istituzionalizzazione della terapia del dolore acuto post-chirurgico è di pochissimi ospedali; i servizi di terapia antalgica spesso sono solo presenti sulla carta ma non hanno mezzi ed organici; il parto indolore è qualcosa di cui diffidare! È evidente che soffrire maggiormente di una così drammatica situazione sono i più deboli, quelli che non hanno voce perché o troppo piccoli, o troppo vecchi, o troppo malati.

Ben vengano dunque iniziative come questa volute dalla dolcissima Anna Pozella e dai colleghi dell’Ospedale di Sapri che pongono il problema del dolore nel bambino e della necessità di doverlo controllare. Dall’ascolto degli interventi per i presenti e dalla lettura degli atti per coloro ai quali saranno distribuiti verrà lo stimolo a considerare il problema dolore nei suoi termini reali, ad inserirlo nel contesto di disagio grave vissuto dentro e fuori dagli ospedali dal paziente e dai familiari, a cogliere i vantaggi della prevenzione e del trattamento di tale disagio.

La consapevolezza che, attraverso strategie farmacologiche e non farmacologiche, in centri italiani ed esteri, il fardello della malattia sia stato reso meno gravoso per i bambini sarà per tutti stimolo per iniziative tendenti a far in modo che il treno del progresso, questa volta carico di umanità ed amore, arrivi anche dal Sud. Pertanto c’è un messaggio che partendo dai relatori, attraverso le nostre persone o attraverso gli atti, deve arrivare a casa e che a me piacerebbe diventasse "il documento di Sapri sul dolore del bambino". Esso potrebbe articolarsi nei seguenti punti:

Sono convinto che questi pochi asserti, se adottati con convinzione, renderanno al bambino giustizia di tante prepotenze che è stato costretto a subire. Se è vero oggi che "l’unico dolore che si può sopportare è quello degli altri", cioè se per noi stessi vogliamo un intervento efficace atto a stroncarlo, altrettanto e più ancora dobbiamo realizzare per i nostri piccoli pazienti.